Ho letto due libri molto belli ultimamente, entrambi parlano di depressione, entrambi lo fanno non in maniera astratta o freddamente clinica ma raccontando la realtà di una malattia che ti fa desiderare di non essere più vivo per non impazzire di dolore. Proprio questo è il pregio del libro del giornalista e scrittore Matt Haig, Ragioni per continuare a vivere. La storia vera della mia depressione e di come ne sono uscito (Ponte alle Grazie): spiegare a chi non ne ha mai sofferto – dando parole al tempo stesso a chi ne ha sofferto e raccontare non sa – la fenomenologia della depressione, la caduta in una realtà claustrofobica e soffocante, piena di dolore e terrore a tal punto che immaginarla come una gomma sgonfiata, col “sentirsi un po’ giù” è semplicemente un non sense.
L’altro dramma della depressione che Haig racconta bene è il fatto che la depressione è invisibile, può sembrare una cosa da nulla, “la testa brucia ma non si vedono le fiamme”. La depressione, poi è diversa da persona a persona, “perché le menti si inceppano in modo unico, non è mai esattamente la stessa cosa”. L’unica cosa buona, per così dire, è che la depressione è democratica, può colpire tutti, ricchi e poveri, persone felicemente sposate e persone che hanno ricevuto una promozione, personaggi pubblici famosi, come Robin William (“la sua morte mi ha spaventato, come se in qualche modo il suo gesto avesse aumentato le nostre probabilità di finire nello stesso modo”). E quando si sprofonda nel male, come dicevo all’inizio, si pensa alla morte non come una cosa desiderabile, “la morte continua a far paura anche a chi si suicida”, ma come un’opzione alternativa a un male di vivere che si è fatto insopportabile (ecco come lo descrive Haig in un altro passaggio: “ipocondria, ansia da separazione, senso continuo di terrore, sfinimento mentale, sfinimento fisico, senso di inutilità, dolce agli arti, sensazione di sentirsi perso una tristezza infinita, insonnia”).
Pur essendo una malattia che uccide più di una guerra, di depressione si parla poco o nulla. Per fortuna come l’energia di un uragano cessa, anche la sofferenza non dura. “Lei dice che durerà, ma è una bugia”. Ignorare la convinzione che nulla potrà cambiare è il primo passo per uscirne e per tornare a “avere amici, mangiare ottimo cibo, guardare il panorama, vivere, ridere”. “La vita ti aspetta”, scrive Haig.
L’altro libro è a firma dell’attore Stefano Dionisi e si chiama La barca dei folli. Viaggio nei vicoli bui della mia mente (Mondadori). In realtà è un libro pieno di sense of humour, meno drammatico di quello di Haig – che pure termina elencando le ragioni per le quali vale vivere e racconta la sua storia al passato), in cui Dionisi ci fa entrare visivamente dentro un istituto dove è stato più volte ricoverato per raccontare l’universo umano che si muove lì dentro, tra dottori e bizzarri, ma umanissimi, pazienti. Un affresco che ti fa sentire una profonda empatia verso l’autore, che ha spiegato proprio sul Fatto i motivi per i quali ha deciso di esporsi.
Due uomini pubblici, uno stesso male, l’identica voglia di raccontare. Chi li legge e non è mai stato malato può apprendere cosa significa davvero essere depressi. Chi depresso è, o è stato, avverte un senso di infinita consolazione nel sapere che se ne può realmente uscire. Non a parole, ma nel corpo e insieme nella mente. E dopo, lo si può persino raccontare, una cosa, dice Haig, che per lui sarebbe stata impossibile credere nel periodo della sua malattia. E invece, qualche anno dopo, eccolo qui, il libro, con la copertina di un uomo in volo attaccato a un grappolo di palloncini colorati. Le ragioni per vivere, appunto.