La Sicilia se si esclude Emma Dante, Scimone e Sframeli e qualche anno fa Davide Enia, forse l’appena deceduto Franco Scaldati, non ha un ruolo da protagonista nella geografia teatrale italiana, e non tutto dipende dalla conformazione dello Stivale e dalle difficoltà di lontananza e spostamenti che il temuto (dal resto d’Italia) Ponte sullo Stretto (cibo e nuova linfa per affari illeciti e infiltrazioni di varia natura) non risolverebbe.
Buona in questo senso, per sopperire a questa lacuna, per accorciare qualche distanza, l’iniziativa del Teatro Libero palermitano (circa 150 posti, in una parte di una chiesa sconsacrata, struttura privata arrivata quest’anno alla 48esima stagione), su iniziativa di Luca Mazzone, sveglio, fresco, attivo, con delle idee per invertire il corso delle cose che a queste latitudini appaiono sempre immutabili, lente, fisse, invariabili, macchinose, appesantite da burocrazie, negligenze, ritardi, dissesti d’ogni genere e tipo. Mettere attorno ad un tavolo, e confrontarsi, parlarsi, ritrovarsi, i vari soggetti siciliani, da Latitudini di Messina all’Associazione musicale Etnea fino ad esponenti del Cresco siciliano, in una prima parte dialettica in uno scambio di metodologie e ordinamenti con Francesca D’Ippolito, esperta di organizzazione teatrale in Puglia, e, in una seconda trance, con interventi performativi per mostrare lavori ed opere.
Un mondo a parte è ciò che è emerso in questa edizione zero di “Contemporaneamente Sicilia” (2-3 ottobre) a partire proprio dalla dimostrazione di lavoro, una sorta di short e show case che si è tramutata in video, nemmeno di parti di piece ma veri e propri corti cinematografici, che poco o niente avevano a che fare con l’opera dalla quale erano estratti. Nemmeno una telecamera fissa a riprendere un lavoro, recente o passato, ma suggestioni e voli pindarici. Se la parte pugliese parlava di strategie e di know how, di festival e incontri, possibilità e bandi il tutto con un occhio vigile e costante ai budget, nella parte siciliana ognuno raccontava la sua piccola realtà senza cercare ponti e agganci per sostenere idee condivise in un’immagine frammentaria, in una polaroid di piccoli interessi pregressi e istanze personali. Più che collaborare siamo ancora al punto dell’annusarsi, dello studiare le mosse dell’altro, nel pensare che gli altri gruppi e compagnie vogliano ottenere qualcosa, scardinando o sorpassando gli altri visti come competitor e non come possibili partner progettuali. Più che altro si batte cassa, si chiede, si pretende, in questo pozzo senza fine che tutto mastica, ingloba, digerisce. Alcuni operatori, annunciati, poi hanno preferito non presentarsi: troppo disturbo, un po’ di superficialità.
Non ci ha colpito “Nel fuoco” di Giuseppe Massa, storia di un ragazzo nordafricano che si è arso vivo, non ci ha toccato Savi Manna con “Importante, molto importante”, una prostituta e un violinista che la va a trovare pagando senza volere in cambio sesso fino al giorno in cui lei viene rimpatriata, ci ha lasciato dubbiosi Turi Zinna in “Tifeo” che gioca e lavora nello spazio della “realtà aumentata”, grandi video generatori e proiettori d’immagini interattive create da software che alla lunga inquietano e stancano nella continua pioggia di luce che abbaglia e iperstimola affaticando e appesantendo lo sguardo.
Biagio Guerrera, in “Sicilia segreta”, crea un incontro tra poesia e musica in un viaggio che poco ha a che fare con il teatro, Giuseppe Provinzano con i suoi Babel Crew, in “Ore d’aria” intesse un percorso sul tempo che ognuno di noi dovrebbe riservarsi e ritagliarsi per soddisfare i propri bisogni e sogni. Un alone di teatro, ma con riserve e punti interrogativi, è il pirandelliano “Personaggi” proprio del Libero, con l’autore, stavolta non cercato ma trovato, che parla con i caratteri delineati nelle pagine dei propri scritti, un po’ come nel finale del recente latelliano “Ti regalo la mia morte, Veronika” o di “Youth” l’ultima pellicola di Paolo Sorrentino. Sorvolando sul concetto di realtà e finzione e maschera, non è più plausibile oggi recitare in maniera così classica e pomposa, con riverberi ampollosi e sottolineature solennemente tragiche da melodramma forzato, nella declamazione didascalica. E non è più possibile non compiere dei funzionali aggiustamenti di senso e stilistici e linguistici e formali (ad esempio, uno per tutti il “cangiare” del testo pirandelliano che stona, stucca, allontana che poteva essere tramutato facilmente in “cambiare” senza snaturare il senso). “Un posto ci sarà per questa solitudine, perché mi sento così inutile davanti alla realtà”. Non ora, non qui, però, pare.