Queste brevi righe non sono un’analisi dell’accaduto, piuttosto una sua proiezione sul futuro – sempre più rischioso e incerto – per cercare di anticiparne il suo dipanarsi, rispondendo a una serie di questioni. Parigi, infatti, propone una quantità di problemi su cui lavorare.
Il modus operandi degli attaccanti. Diamo per scontata la capacità operativa militare, già dimostrata con Charlie Hebdo, connessa al training nei campi del Jihad. Ora è più importante comprendere il sistema organizzativo che c’è sotto: si tratta di un ritorno alla struttura cellulare, la cui azione è diretta e pianificata da una centrale di comando? Si tratta di forme di auto-organizzazione del gruppo che pianifica la sua azione? La comprensione della catena di comando e controllo è fondamentale per le azioni di intelligence. In questi giorni la tendenza è quella di evidenziare una “regia forte”, sottintendendo un ritorno al comando operativo centralizzato forte. Ma è così? La regia indubbiamente è “di polso” sul piano ideale, di indirizzo e di attribuzione dei target. Ma sul piano squisitamente organizzativo dell’operazione non si può pensare che il regista non sia ormai collocato ai livelli bassi della catena? Cioè all’interno del gruppo operativo? Sembra orientare a questo anche la nuova definizione di Lone Warrior comparsa con frequenza – in arabo – dopo Parigi.
Rifugiati e migranti: cioè la connessione del terrorismo con i grandi flussi delle persone in movimento. Un passaporto siriano appartenente a un suicide bomber ha subito aperto al questione. Che è politicamente assai delicata. Malgrado la sensibilità politica spesso avversa, fondamentalmente ideologica, da tempo si può affermare che esiste una connessione diretta tra trafficanti della criminalità organizzata e terrorismo che sfrutta i flussi; che esiste un surplus di manodopera combattente che non viene ricollocata nei paesi d’origine; che i flussi di rifugiati sono un’arma di pressione nel contesto della guerra ibrida; che l’impiego di sim telefoniche e documenti di rifugiati e migranti sono preda, e utilizzo, dei trafficanti, tra cui i terroristi. Il dopo Parigi, richiede una valutazione attenta di questa connessione perché, di conseguenza a questa, nuove misure operative saranno necessarie. Quali?
Il lavoro dell’intelligence. Almeno uno dei terroristi di Parigi era noto. Da cui le accuse, più o meno velate, di incapacità dell’intelligence a prevenire l’attacco, ma solo i foreign fighter francesi sono 1.500 e ammettiamo che siano tutti monitorati al loro rientro (più che probabile). La questione è che i metodi tradizionali sono troppo costosi (per denaro e uomini) per essere utilizzati. Dunque, cosa significa oggi monitorare rischio e persone?
Qual è la rete locale dei terroristi parigini? La connessione tra membri del jihad francese e belga è assodata. Ma spunta anche un contatto almeno balcanico. Se pure mettiamo al centro la rete – il gruppo – quale unità costituiva, organizzativa e operativa, dell’attacco, quali sono i confini che definiscono il modello di appartenenza e di relazione del gruppo? Da una parte abbiamo la moderna mobilità a basso costo che ha reso possibile il costituirsi di gruppi con membri appartenenti a realtà territoriali diverse, capaci di mantenere contatti frequenti; ma abbiamo anche la territorialità virtuale che sempre più presiede alle nuove identità di gruppo; e ancora, su base relazionale, probabilmente abbiamo gruppi che si fondano sulla condivisione delle esperienze forti (i reduci): probabilmente maggiori competenze di intelligence sulle reti che si costruiscono sul campo di battaglia o di formazione tra i jihadisti sono un interessante indicatore delle relazioni operative che possono essere alla base di operazioni come quella di Parigi.
Il Belgio: in questo 2015 tutte le strade del terrorismo passano attraverso il Belgio: tutte le reti, di trafficanti e anche di armi e anche di treni e anche virtuali e anche trovano qualche riscontro nel Paese centro europeo, dove l’Europa ha i suoi assetti politici e amministrativi. Dove ancora nulla è accaduto. Un altro tema da mettere a fuoco, soprattutto dopo Parigi.
Siamo in guerra? Sono ormai anni che si sta combattendo una guerra ibrida, cioè pervasiva, diffusa e delocalizzata, senza regole condivise tra i partecipanti che sono eserciti con o senza divisa, terroristi e criminali, media e tanti altri. L’Europa finora ha esorcizzato la guerra pensando di poterla combattere in un altrove de localizzato. Ma per alcuni è ormai arrivata a Parigi dentro l’Europa e nel prossimo futuro possiamo aspettarci che la si combatta ancor più nelle strade. Per poter avviare delle azioni che tutelino la sicurezza dei cittadini è necessario condividere il senso della situazione in cui ci si trova a operare. Rispondere alla domanda “siamo in guerra oppure no?”… con tutto quello che ne consegue, anche sul piano giuridico, è necessario. Ammetterlo o negarlo significa legittimare comportamenti,anche quotidiani, molto diversi tra di loro.
IS è un gruppo terroristico di che tipo? Quello di Parigi non è l’attacco di un gruppo terroristico ma sembra più l’uso del terrorismo come strumento della guerra ibrida da parte di una organizzazione complessa. Il terrorismo, in quanto organizzazione, si pone l’obiettivo di modificare l’ordine costituito utilizzando il terrore come strumento, colpendo infrastrutture e popolazione. Lo Stato Islamico non vuole semplicemente modificare l’ordine esistente: il Califfato persegue il processo di espansione che lo caratterizza non attraverso la modifica del sistema e l’assorbimento della popolazione, ma attraverso l’espulsione di entrambi. Gli obiettivi del Califfato vanno ben oltre a quelli del terrorismo tradizionale che ha prodotto le definizioni che oggi stiamo ancora usando e che, pertanto, sono inadeguate. Ma del terrorismo esso usa gli strumenti raffinati nella devastante capacità di colpire, in un quadro di colonizzazione dell’Occidente che non offre possibilità di negoziazione politica tra le parti: il Califfato opera la pulizia etnica e religiosa e attira nuovi coloni nelle terre che conquista. Abbiamo strumenti adeguati per combattere questa forma di terrorismo avanzato?
Quale risposta Europea? Non è un attacco alla Francia. E’ un attacco all’Europa. Migliaia di monumenti illuminati con i colori francesi hanno sbandierato la solidarietà del mondo a Parigi. Ma quale distanza esiste ancora tra la solidarietà dichiarata, preziosa per riscaldare il cuore, e la necessità di condividere una strategia operativa che non può che essere europea per avere qualche possibilità di successo. Non ci sono muri possibili di contenimento della minaccia che possano essere elevati dentro l’Europa: questi muri, nel caso, frammenterebbero solo il continente, favorendo gli attacchi di IS. E ormai l’Europa o vive/sopravvive unita o morirà frammentata. Quali sono le reali possibilità di condivisione di strategie politiche e militari tra i paesi europei? E ancor più: sono tutti i 28 paesi aderenti in grado di condividere queste strategie? Cambiamo Europa?
di Marco Lombardi