Avevo raccontato poco tempo fa, sul Fatto Quotidiano, quel che ho visto camminando per le strade di Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove arruolano militanti della jihad. Il mio era un reportage, una testimonianza in più, per capire cosa sta succedendo (questo il link) dove alcuni ragazzi europei compiono il grande balzo.

Lo spavento che abbiamo preso tutti l’altra notte non è ancora smaltito. Io non ho dormito per seguire quel che accadeva a Parigi sui canali francesi. Ero combattuta tra il capire le dinamiche razionali di quello che c’era dietro, e provare com-passione con la gente che era allo stadio e cantava la marsigliese rientrando nel tunnel, i ragazzi che poco prima ballavano in discoteca, le coppie al bistrot che cenavano. Pensavo alla compostezza francese; al modo in cui viene portato avanti un pensiero, una regola di vita che andava oltre la vita di chi sta davanti; allo stadio di calcio come luogo di disperazione, di conforto reciproco, di sollievo (quello steward che non ha fatto entrare il kamikaze è un eroe).

Ora penso alle mie reazioni durante quella notte interminabile. Guardavo le immagini che venivano inviate dai reporter occasionali sul posto, e rimanevo fredda davanti alla tragedia in atto. Non stavo guardando un film, poteva succedere qualcosa che nessuno ha letto in nessuna trama ancora. Volevo anticipare con il pensiero la mossa successiva, già pensavo a quelle strade il giorno seguente, già pensavo agli stati d’animo nei mesi seguenti delle persone che hanno vissuto con i loro occhi tutto questo. Mi veniva solo di trasmettere amore, amore, amore. Spellandomi le mani per scrivere quella parola continuamente ai miei cari, con messaggi, con telefonate, con frasi lanciate nell’etere. Amore, solo amore. Ora più che mai. E #PorteOuverte, sempre.

Questo era il mio racconto di Molenbeek.

Li chiamano wanna-be jihadist (aspiranti combattenti della Jihad) o anche foreign fighters, si tratta di giovani europei che lasciano il loro paese, la loro famiglia, per partire verso la Siria, verso l’Iraq. Come vengono reclutati, da dove passano, come avviene la conversione all’Islam, tutte informazioni che girano in rete. Il Paese, seppur piccolo, con maggior numero di combattenti in partenza è il Belgio (dati raccolti da RFERL). Al secondo posto c’è la Francia. Stando agli ultimi dati diffusi dal Ministero degli Esteri di Parigi, i francesi partiti sono più di un migliaio (14 ragazzi ogni milione di abitanti). Così come dalla Germania: secondo Der Spiegel già 300 ragazze tra i 16 e 27 anni hanno lasciato il paese per raggiungere gli jihadisti. Poi, anche dall’Inghilterra, dalla Svezia (i dati riguardanti l’Italia non ci sono). L’arruolamento avviene nei social network, oppure in luoghi fisici come la banlieue parigina, o come Molenbeek Saint Jean, un quartiere a due fermate di metropolitana dal centro di Bruxelles, la città sede del Parlamento Europeo. Ed è proprio qui che scendo, in corrispondenza della fermata della metropolitana chiamata Comte De Flandre, che mi porta diretta nel cuore del quartiere.

A Molenbeek due giovani su cinque sono disoccupati, a Bruxelles il 65% degli studenti di origine straniera non conclude gli studi, e il 20% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. A Bruxelles abitano da sempre leader e militanti jihadisti in esilio. E’ la città più islamizzata del vecchio continente: 300 mila persone, un quarto della popolazione segue i dettami del Corano. Il fatto che a Molenbeek vengano arruolati jihadisti europei è cosa nota: da qui partirono nel 2001 i killer tunisini del comandante afghano Massoud, ed è qui che poche settimane fa è stata fatta una retata anti-jihadista da parte della polizia belga, proprio a seguito dei fatti di Parigi. Ma in pochi si sono spinti fino qui solo per guardare; per capire cosa distingue questo quartiere da qualsiasi altro quartiere arabo di una grande città europea.

Appena si aprono le porte della metropolitana, lungo la banchina, trovo la polizia belga schierata. Quattro ragazzotti con le braccia sui fianchi, pistole alla cintola bene in evidenza, e occhi a fessura che ti osservano, ti guardano, scrutano con cura ogni dettaglio di chi scende. Uno di loro mi fa cenno di abbassare l’obiettivo della macchina fotografica, un altro mi viene vicino e mi consiglia di metterla direttamente nella borsa quando sarò fuori per le strade. La prima cosa che noto appena mi trovo all’aperto, sono i negozi che hanno come unica insegna una scritta araba, il francese è sparito dalle vetrine. Le donne che passano indossano tutte il velo. Le espressioni del viso di chiunque sono tese, arcigne. Già a pochi passi dall’uscita della metro, mi trovo davanti all’ingresso transennato della caserma della polizia, e due uomini in divisa come sentinelle che guardano fisso davanti. Il dirimpettaio, dall’altra parte della stradina su cui si affaccia la caserma, è un bar senza nome (o meglio, l’insegna è in arabo), tenuto non troppo bene, anche qui ci sono due uomini, entrambi in jeans, entrambi con un cappello calato sugli occhi, anche loro in atteggiamento da sentinella, anche se con un gomito sul bancone e una lattina di Coca Cola che si dividono in due.

Proseguo lungo Rue de l’Avenire e costeggio la Moschea El Mostakbal, cerco di fare qualche foto ma le persone che mi ritrovo davanti si coprono tutte il viso, chi con le mani, chi con dei fogli di carta, chi con la busta della spesa. E’ venerdì, è giorno di preghiera. L’uomo che porta i tappetini all’interno si ferma a parlarmi. Si chiama Aasim, ha 40 anni. “Qui non c’è lavoro, non c’è istruzione, c’è povertà, c’è la crisi. Veniamo dimenticati dalla società, i nostri ragazzi non hanno futuro, perché non sanno chi guardare per avere un riferimento, un sogno, una speranza, una persona da seguire”.

I negozi che si susseguono lungo la via sembrano fermi agli anni 70, sia come aspetto, sia come pulizia, sia come prodotti venduti. Non c’è tecnologia, l’unica eccezione sono i telefonini e i computer nelle mani dei ragazzi che incontri in strada. C’è lo “Shop a 1 euro” che non chiude mai, c’è la drogheria “Chez les freres” trasformato in un ritrovo per le chiacchiere, c’è il “Salon coiffeur Hedi” che in questo momento ha all’interno dodici uomini seduti a cerchio su delle sedie a sgabello. Nella poissonerie e nella charcuterie non mi fanno entrare, mi fermano sulla porta: le donne non hanno il permesso, mi dicono. Una decina di ragazzi sono riuniti intorno a un tavolo al salon de the “Le nieuw royal”, che di nuovo e di regale non ha proprio niente: sedie di plastica gialle con le gambe di ferro arrugginito, muri nicotinati, i bicchieri sono tutti scheggiati. Ciascun ragazzo ha un computer aperto, di fianco è poggiato un iphone o un samsung.

Questo è Molenbeek. Più di 5 mila giovani sotto i 18 anni, dove si contano in totale 13 mila abitanti. Tasso di disoccupazione 43%. Ed è solo uno delle 19 communes che compongono la capitale del Belgio, ma è l’unico quartiere ad avere questa cappa, questa atmosfera, questa fatica.

Arrivo nella piazza principale, c’è la chiesa Saint Jean Baptiste, imponente, che mette un po’ di soggezione. Mentre cerco di inquadrarla tutta nel mio obiettivo, proteggendomi dalla pioggia sotto il telone di un fruttivendolo, un ragazzo con la cassetta delle mele in mano mi si avvicina, e mi chiede cosa faccio lì. Mi dice che non posso scattare foto senza il permesso. Mi chiede se sto aspettando qualcuno. Si chiama Basel, ha poco più di vent’anni. Poi è stata la volta di Alì, poi di Yasir, poi di Abdul. Venti, ventidue, diciannove anni. Perché la stessa situazione, lo stesso incontro, con le stesse domande, mi ricapita ancora tre volte, nel giro di dieci minuti, in posti poco distanti uno dall’altro, con persone diverse. Mi è bastato fermarmi per l’impresa, quasi impossibile, di fare delle foto in questo quartiere di Bruxelles, che ha un odore che difficilmente si può dimenticare.

La Quilliam Foundation ha tradotto in inglese un manifesto di 40 pagine pubblicato sui siti jihadisti per il reclutamento delle donne europee. L’istruzione femminile nello stato islamico deve cominciare ai 7 anni e finire ai 15 anni, è incentrata sugli studi coranici, la cucina e il cucito. Le donne con il velo che girano per questo quartiere sono tutte sole, o accompagnano bambini molto piccoli. Tengono tutte lo sguardo basso, non le trovi nei negozi. Lungo Rue de Ribaucourt incrocio qualche ragazza dai tratti europei. Cerco di stare con loro più tempo possibile. Non parlano quasi mai con nessuno. Non salutano, non hanno uno sguardo. Si assomigliano molto nel modo di vestirsi, trasandato, sciatto. Entrano ed escono da questi palazzi con un passo furtivo, nessuna esitazione. Mi colpisce il fatto che nessuna di loro porta una borsetta femminile, non un filo di trucco.

Secondo un resoconto recente su Der Spiegel, a cadere nella trappola del reclutamento jihadista ci sono molte donne francesi, giovani e giovanissime ragazze. Solitamente le donne vengono convinte ad intraprendere questa strada con la scusa dell’aiuto umanitario, e un senso di appartenenza ad una famiglia dove sentire di avere uno scopo nella vita. Il lavoro propagandistico è mirato per attirare a sé gli spiriti più fragili, quelli che si sentono in crisi di identità, confusi, e senza un lavoro. L’adescamento avviene tramite i social network, la conversione all’islam è una conseguenza, così come la partenza per la Siria che in questi giorni sta avendo un impennata. Una tappa intermedia alla partenza a volte avviene in un quartiere come Molenbeek.

 

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