Il presidente russo Putin ha mostrato durante il G20 di Antalya foto delle colonne di autocisterne usate dai miliziani per il trasporto del greggio. Secondo un'inchiesta del Financial Times, la produzione gestita dagli jihadisti si concentra nella provincia siriana orientale di Deyr az Zor, alla frontiera con l'Iraq
La maggior parte dei giacimenti petroliferi in Siria sono controllati dallo Stato Islamico e la vendita di greggio rappresenta la più importante fonte di finanziamento dal Califfato. A ribadirlo, nel giorno in cui l’aviazione militare statunitense ha attaccato per la prima volta più di un centinaio di camion cisterna nell’est della Siria, è stato Vladimir Putin. Nel corso del G20 di Antalya, in Turchia, il presidente della Federazione Russa ha mostrato ai colleghi dei venti Stati più industrializzati del mondo immagini scattate dai satelliti e dall’aviazione russa: colonne di autocisterne usate dai miliziani dell’Isis per il trasporto dell’oro nero.
Secondo una recente inchiesta del Financial Times, lo Stato islamico guadagna ogni giorno 1,5 milioni di dollari dalla vendita del petrolio estratto nei territori sotto la sua occupazione: oltre alla Siria ne fanno parte anche territori iracheni e della Libia. In particolare, la produzione del greggio gestita dagli jihadisti guidati da al-Baghdadi si concentra nella provincia siriana orientale di Deyr az Zor, alla frontiera con l’Iraq. Testimoni locali affermano che l’Isis controlla anche il giacimento di Qayyara, vicino alla città irachena di Mosul, da cui viene però estratto un tipo di greggio più “pesante” usato soprattutto per la produzione di asfalto.
Nella provincia centrale siriana di Homs, le forze leali al presidente Bashar al-Assad e quelle dell’autoproclamato Stato islamico combattono per il controllo del giacimento petrolifero di Jazal e per quello di gas di Shaer, più volte passati di mano e attualmente sotto il controllo dei soldati filo-governativi. Il petrolio viene preso in consegna nei giacimenti da intermediatori che lo caricano su autocisterne per rivenderlo su mercati locali – il più importante è quello di Al Qaim, al confine con l’Iraq – o alle raffinerie gestite direttamente dagli jihadisti o, per la maggior parte, da operatori locali che si spartiscono poi il ricavato con gli stessi miliziani Isis.
Si tratta in gran parte di impianti rudimentali costruiti da privati dopo che quelli nelle mani dell’Isis erano stati distrutti dai raid aerei della coalizione internazionale a guida americana. Ne viene ricavato carburante per autoveicoli o mazout, un tipo di gasolio utilizzato per alimentare i generatori di elettricità. Sempre secondo quanto riporta il Financial Times, la maggior parte del greggio prodotto viene venduto in Siria e Iraq, o nei territori limitrofi controllati da gruppi di ribelli nemici dell’Is. Risulta invece in forte diminuzione l’esportazione in Turchia, soprattutto dopo il crollo del prezzo del petrolio sui mercati mondiali che l’ha resa meno conveniente. In Iraq la maggior parte del contrabbando, che avveniva attraverso la regione curda, è stato bloccato, ma secondo fonti locali una parte del prodotto viene rivenduto alla Giordania.
Questa mattina, l’aviazione militare statunitense ha attaccato 116 camion cisterna nella zona vicino Dei al-Zour, nell’est della Siria, che i militanti dello Stato Islamico utilizzavano per il trasporto del greggio. Secondo il quotidiano New York Times centosedici autocarri sono stati distrutti negli attacchi lungo il confine siriano con l’Iraq. Obiettivo, secondo il giornale, era proprio quello di limitare una delle principali fonti di finanziamento dell’Isis.