The Hangovers nascono dalle session di Victor M. de Jonge, voce solista e chitarrista, e Tristan Vancini, basso e voce, in quel di Milano
Grunge caraibico? The Hangovers racchiudono questa sensazione: le loro canzoni sono un inno al divertimento; ma del gaudio vitale ne raccattano, all’alba, anche i cocci rotti. Una bizzarra, ma virale, fusione tra Harry Belafonte e la tossicità della Seattle anni 90. Tra le trombe, i ritmi inclazanti, le melodie spensierate ed orecchiabili aleggia un sentore di catastrofe.
The Hangovers nascono dalle session di Victor M. de Jonge, voce solista e chitarrista, e Tristan Vancini, basso e voce, in quel di Milano. I due studenti fuori sede, accomunati da una residenza bolognese commista a internazionalismo – di origini olandesi il primo, albioniche il secondo – preferivano, agli ingessati party meneghini, chiudersi in casa e darci giù di sostanze e giri armonici. Al loro ritorno a Bologna si son procurati quanto mancava: una chitarra solista, Filippo “Face”de Fazio, e le percussioni – gran cassa, cembalo e due bonghi –, Michele Mantuano. Per anni i quattro hanno suonato, ovunque e dovunque, cover dei loro artisti preferiti; da Cortina alle bettole delle Canarie e di Bologna passando per ogni tipo di matrimonio – anche quello di un magnate Russo; in magnificente location capitolina. I loro accoliti si sono accumulati come i vuoti delle bottiglie e i lividi (i quattro hanno una spiccata tendenza alla briga). Hanno anche ricevuto un invito ufficiale per partecipare a X Factor. Ci hanno pensato, si sono scornati e confrontati, e sono giunti a una conclusione: “Rifiutiamo, troppo sbatto”. Tutto bello ed epico (ma vero), restava però una richiesta pressante e insistente: “Belle le cover di Johnny Cash e degli altri, ci fanno divertire e ballare, ma a quando brani originali?”
Con Different Plots i brani originali sono arrivati. Si apre con l’arpeggio new folk di Invece No che si getta nell’incalzare di un ballo di gruppo texano, mentre il testo lamenta l’insofferenza per la coazione delle scelte nella vita di coppia. Un Anno Fa è un levare in odore ska con svisate reggae, con tanto di trombe; chiede di essere lasciati in pace e invoca, in tipico slang felsineo, il “polleggio”. Qui Da Me ammette senza troppe remore:“ho speso tutto in alcol / sarà perché non so più che cosa fare che faccio su”; il battere trascina in una festante giga in quattro quarti. La gaudente devastazione dei guapos continua con Postumi della Viltà e con il pop di Ogni sera. Arriva poi il poker inglese che, pur nella buona quadratura dei brani in italiano, sembra più maturo e convincente. Sinner è una composizione assolutamente riuscita. Le armonizzazioni vocali (tutto l’album è intessuto di un attento dialogo armonico delle voci) che aprono il sipario e un groove dinamico perfetto ne fanno un brano che non sfigurerebbe nella produzione di Simon and Garfunkel. It’s On resta sapientemente in equilibrio tra Sgt. Pepper’s e NOFX mentre I’m All Right attinge alla tradizione del folk rock americano – un sapore alla Creedence Clearwater Revival. Curse the Day poggia su un riff ipnotico che detta un blues accelerato; il testo recita “Maledetto il giorno in cui sono nato”, ombre nere che vengono affrontate a viso aperto, senza paura. Un coraggio ripagato una volta scoperto che basta un fischiettìo alla Morricone per dissiparle. Si chiude con Different Plots, il secondo singolo che è summa dell’album: luci e ombre, felicità e tristezza, melanconia e disincanto; il grunge caraibico, insomma.