Ieri (lunedì 16 novembre) ho ricevuto, come tutti i dipendenti dell’Alma Mater, la comunicazione rettorale che invitava a “rendere manifesta, negli uffici, negli spazi universitari e nelle aule durante le lezioni, la condanna per le stragi di Parigi, in difesa dei valori culturali della pace e del rispetto sui quali è fondata da sempre l’intera vita universitaria“.
Avevo lezione al corso internazionale e ho preferito spostare l’accento dalla condanna ai valori culturali. Rubando pochi minuti al “quarto accademico” ho sottolineato che proprio lì, nella nostra aula come in migliaia di altre, può rinascere la costruzione di questo strano secolo: nella conoscenza e nel rispetto reciproco, nello sforzo per vincere la nostra ignoranza, chiedendo gli appunti o passando la soluzione di un esercizio al vicino di un’altra nazionalità e di un’altra religione. Ho detto quanto mi commuove vedere, fra di loro, musulmani del Pakistan e induisti dell’India studiare insieme, mentre le loro nazioni schierano armi nucleari l’una contro l’altra. Ho anche rispolverato ricordi liceali, parlando della fruttifera convivenza fra religioni diverse nella Granada araba e di come l’algebra che insegno al primo anno fosse nata in India, fiorita nel mondo arabo e approdata in Italia e in particolare nella mia città, raccogliendo diverse fra le nazionalità presenti in quella stessa aula verso un unico obiettivo di conoscenza.
Poi li ho tartassati con due ore toste di teoria dei grafi, perché quello è il mio lavoro.
Prima che i commentatori accendano il lanciafiamme, chiarisco che non sono un pacifista a oltranza: mi è già capitato di dire che sono stato ufficiale di complemento per convinzione; e capisco bene che l’Italia abbia responsabilità anche militari nel teatro mondiale. Sfoglio articoli e blog qui sul Fatto e trovo assurdo cancellare una visita scolastica a mostre d’arte per la presenza di soggetti religiosi o pensare che in una città europea mi si possa impedire di fare fotografie in un luogo pubblico, benché popolato da immigrati. Sono fiero della mia identità culturale, anche se sono conscio dei suoi molti lati oscuri. Non voglio, però, cascare nella trappola degli assassini di Parigi (e dell’aereo russo, ecc.): loro fanno strage di innocenti, in modo che noi cominciamo la caccia al musulmano, in modo che i musulmani anche più pacifici s’incazzino e prendano le armi; non ci sto.
Bisogna trovare i luoghi e i modi per partire nel verso giusto e non so immaginare una situazione migliore della mia classe multicolore (guardate qui quella di un paio d’anni fa). Lo studio, la scienza sono un amalgama portentoso. Mio padre era ancora vivo quando andai a studiare in Inghilterra presso quelli che l’avevano ferito e catturato in Etiopia; e in un’altra foto del corso internazionale di fianco a me c’è un ragazzo di Gondar, cioè della città dove mio padre era stato l’invasore bianco. Ricordo poi lo strano piacere, nei congressi subito dopo la caduta del muro di Berlino, di scoprire fitti interessi comuni fra matematici italiani, slovacchi, ungheresi, russi; ho cenato a Mosca a casa di un collega che come me era stato ufficiale di artiglieria, ma “nemico”; da una parte sapevamo che avremmo potuto combatterci, dall’altra sentivamo quanto questo fosse grottesco.
Forse è presto, ma prima o poi bisogna ripartire, costruire; non trovo retoriche le parole di Mattarella: la scienza, la musica, l’arte e la cultura in generale, ma anche lo sport possono aiutare a conoscerci, a capire le somiglianze e le differenze, a vanificare l’assurdità dell’odio.