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Gli attentati di Parigi sembrano non voler modificare l’approccio degli Stati uniti al presunto Stato Islamico di Al Baghdadi. Per Obama il Califfato resta un problema altrui. L’impegno al massimo è quello di fornire dati di intelligence, vedi anche per i recenti raid francesi in Siria successivi agli attentati di Parigi.

Quella dei Rafale francesi è stata una pioggia di fuoco su obiettivi nevralgici di Raqqa ma con scarsi risultati sul piano della strategia militare. I militanti dell’Isis si spostano in piccoli gruppi. La loro è una guerriglia veloce, duttile, che si adatta a situazioni e luoghi. La disponibilità del presunto Stato Islamico a sacrificare molti dei suoi uomini, in azioni disperate o attacchi suicidi, rende quasi inutili i bombardamenti dall’alto. Di sicuro c’è un dato di fatto. È un modo che i terroristi hanno per combattere questa nuova guerra asimmetrica attraverso azioni che prevedono tra l’altro l’uso di armi non convenzionali (es. il martire suicida) non avendo a disposizione tecnologia militare o cacciabombardieri.

Bisogna farci l’abitudine. Ecco perché più che di nuove coalizioni sono necessari gruppi altamente specializzati nel contrasto al fenomeno. Nelle nuove guerre o nei conflitti asimmetrici vengono a scontrarsi parti eterogenee. I protagonisti, statali o non, hanno forze impari, sono equipaggiati diversamente, impiegano mezzi e metodi differenti, perseguono scopi distinti. Nei conflitti armati interni oggi in crescente numero, l’asimmetria deriva generalmente dal fatto che uno Stato dispone di mezzi militari più importanti rispetto a quelli a disposizione dei gruppi armati organizzati non statali contro i quali si oppone.

La sorpresa è un fatto fondamentale dell’azione terroristica e si basa sulla segretezza dei preparativi e sull’incapacità da parte degli organi d’intelligence di cogliere in tempo e valutare adeguatamente i segnali di pericolo. Se quindi la sorpresa in campo tattico è comprensibile, quella in campo strategico è invece il risultato di deficienze e superficialità imputabili alle strutture e a precise responsabilità manageriali e politiche. Accanto a tutto ciò c’è una guerra all’interno del mondo islamico senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri. L’ultimo in ordine cronologico è appunto l’Isis stigmatizzato da una buona fetta del mondo islamico.

E’ necessario quindi riformare la comunità islamica allontanando i predicatori estremisti, quelli che si ispirano ad esempio ai principi dell’egiziano Sayyid Qutb. C’è bisogno di un ritorno al concetto originario di jihad inteso come sforzo interiore spirituale e non a quello che ha ispirato il jihad globale inteso a colpire il nemico nel suo territorio. Alcuni, compresi gli europei, si sono rivolti al terrorismo espresso da Isis o altri gruppi per varie ragioni: convinzioni politiche, ideologiche e religiose. Altri sono semplicemente criminali, altri diventano terroristi perché si ritengono oppressi o sottoposti a limitazioni economiche. Nelle banlieue le giovani generazioni musulmane si radicalizzano da anni e gli integralisti reclutano tra i piccoli criminali di quartieri in cui lo Stato è lontano e le prospettive misere. Una intelligente politica estera deve tenere conto delle ragioni di chi si rivolge al terrore e cercare di rimuoverle.

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