valeria solesin 675

Quale è il sottile confine che separa la necessità di dare tutte le informazioni sulle vicende di questi giorni e quello che vede invece il giornalista già in tutta mimetica ed elmetto, arruolato nell’esercito della paura? Non vi è dubbio alcuno che, di fronte alle immagini arrivate da Parigi, sia doveroso ascoltare e dare rappresentazione alle paure, alle angosce di chi si sente minacciato, alle pulsioni di chi vorrebbe misure forti e persino l’immediato intervento militare.

Compito dell’informazione è, o dovrebbe essere, quello di non oscurare le voci, i sentimenti e persino i risentimenti, fossero anche i più ripugnanti e distanti dalle nostre sensibilità, anche perché l’oscuramento di un malessere non porta alla sua scomparsa, ma ad un ulteriore e più grave inasprimento, aggravato dal senso di isolamento e di frustrazione. Questo dovere civile e culturale, ancor prima che deontologico, non ha nulla a che vedere con la scelta politica di esasperare i toni con un fine dichiaratamente politico, sino ai limiti dell’irresponsabilità.

Quando si titola “Bastardi islamici, oltre a dichiarare il falso e a violare la carta dei doveri del giornalista, si abbandona il campo della descrizione e persino quello delle interpretazioni, preferendo la via breve della propaganda, dell’inquinamento dei pozzi, dello scontro tra “inciviltá”.

Per quale ragione i circhi televisivi, con le dovute eccezioni, chiamano sempre le stesse persone? Perché mai Salvini, e non solo lui, puó saltare da uno studio all’altro ripetendo sempre lo stessa frase, senza mai dover argomentare nel merito? Perché agli ospiti non viene chiesto, prima di entrare in studio, di rispondere alle domande di un test di cultura generale per sapere se almeno conoscano i nomi delle capitali della Siria, del Libano dell’Iraq…? Temi quali la guerra, il terrore, la vita, la morte, il confronto tra le religioni, possono essere affrontati e proposti con le stesse modalità delle televendite? Il giusto confronto tra tutte le opinioni, comprese le più estreme, non può essere affidato quanto meno alla mediazione di donne e uomini che abbiano almeno la competenza per potersi confrontare su questioni legate alla nostra vita presente e futura?

Chi ha il solo obiettivo di acchiappare i “voti della paura” non è interessato al confronto e tanto meno all’argomentazione, ma ha il solo obiettivo di smuovere le viscere dell’ascoltatore elettore. “Quelli che urlano fanno ascolti…”, mi risponde sempre un amico conduttore, sventolando i suoi grafici, moderno testo sacro del giornalista televisivo. Quelle urla, tuttavia, sono la migliore benzina possibile per gli industriali del terrore, qualunque sia il loro colore e la loro fede. Le piazze dell’odio alimentano i muri e minano i ponti.

Prima o poi si dovrà pure aprire una riflessione, ovviamente non di tipo censorio, all’interno della professione giornalistica e dei suoi organismi professionali, esattamente come accadde di fronte alla minaccia del terrorismo negli anni settanta.

Se fosse possibile, infine, ci piacerebbe che tutti i cronisti, ma proprio tutti, chiedessero ai loro ospiti di non pronunciare più il nome di Valeria Solesin, la ragazza veneziana ammazzata a Parigi. Se c’era una persona lontana da razzismi, muri, esclusioni sociali, odio razziale, era proprio lei che, non a caso, aveva scelto di lavorare anche con Emergency. Lo scontro tra le civiltà, le terze e quarte guerre mondiale, gli “islamici bastardi” non le appartenevano, anzi le ripugnavano. Quando gli industriali della paura dovessero ancora pronunciare quel nome, il conduttore di turno chieda con cortesia e fermezza di “non pronunciare il nome di Valeria invano”, che almeno possa riposare in pace, lontana dagli schiamazzi di iene e avvoltoi.

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