Disposizioni normative emanate in vista di determinati scopi si dimostrano talora inidonee a ottenere i risultati attesi. Il legislatore nazionale è ottimisticamente portato a ritenere che provvedimenti ispirati dalle intenzioni migliori siano sufficienti a plasmare la realtà nel senso da lui desiderato: così omette di compiere una preventiva analisi, fondata su solide evidenze, degli impatti che quei provvedimenti potranno produrre in concreto. L’evidence-based impact assessment – previsto dalla Commissione Europea tra i principi di better regulation (si veda il recente Better regulation for better results) e raccomandato dal Regulatory Policy Committee dell’Oecd – è strumento funzionale a migliorare la qualità delle proposte e la trasparenza delle scelte della regolazione. Inoltre “garantisce l’efficacia della stessa e limita i suoi fallimenti”.
Ciò nonostante, i regolatori italiani non sembrano propensi a una “empirically informed regulation”, convinti dell’astratto assunto che i soggetti regolati conformeranno la propria condotta a incentivi economici, prescrizioni e divieti normativamente previsti: non tengono, forse, in conto che la regolazione, come ogni sistema concorrenziale, opera nella maniera più efficiente quanto minori sono le asimmetrie informative tra i soggetti interessati. Pertanto è necessario che siano adeguatamente conosciuti e stimati, tra l’altro, i comportamenti di coloro cui viene indirizzata, affinché le norme possano essere calibrate nel modo più efficace e il raggiungimento del fine perseguito non risulti inficiato da elementi scarsamente valutati.
Queste premesse rendono più agevole comprendere i motivi per cui alcune misure normative non hanno sortito gli esiti prefissati: si fa riferimento, ad esempio, allo sconto sull’importo da versare a seguito di una multa stradale, nel caso di pagamento effettuato entro un certo termine definito. Le cause del suo insuccesso erano state previste e argomentate: ma, come talora accade, il regolatore ha forse preferito fare una “scommessa al buio”, anziché ponderare le evidenze esistenti. L’assenza di un approccio empirico nella cultura legislativa nazionale si è resa nuovamente palese in occasione del recente decreto attuativo del Jobs act in materia di congedi parentali, che ne ha esteso l’arco temporale di fruizione. Questa misura – finalizzata a promuovere il lavoro femminile, ma la cui idoneità a questo scopo è stata posta in dubbio da diverse fonti – venne introdotta nel giugno scorso e resa operativa nel mese di agosto. Originariamente, era prevista in via sperimentale fino al mese di dicembre: invece, nel mese di settembre è stata resa permanente, prescindendo così dalla sperimentazione prevista e, quindi, dalla verifica della sua effettiva efficacia. Ciò porta a domandarsi se il legislatore non preferisca privilegiare l’interesse a vantare da subito un sia pur teorico risultato, anziché quello di appurare la capacità dell’intervento normativo a ottenerlo in concreto.
Un altro esempio può aggiungersi a quelli sopra citati: con la prossima legge di Stabilità, verrà reso permanente anche il cosiddetto art-bonus, vale a dire un credito di imposta per le erogazioni liberali a sostegno della cultura, inizialmente previsto anch’esso in via sperimentale e riguardo al quale erano stati rilevati sin dall’inizio alcuni fattori che avrebbero potuto comprometterne la piena riuscita. Secondo i proponenti, ne sarebbe conseguita una “autentica rivoluzione” nell’afflusso di risorse a supporto dell’arte. Mentre nei mesi scorsi ne venivano riscontrati gli scarsi risultati, successivamente il ministro dei Beni Culturali ha reso noti i dati effettivi, dichiarando che le donazioni al settore sono aumentate del 20%. Premesso che non è chiaro il periodo temporale cui l’aumento si riferisce e che la somma delle risorse raccolte va scontata dell’ammontare totale del beneficio fiscale concesso ai mecenati, poiché esso incide comunque sul bilancio statale, si nota che buona parte degli interventi segnalati come necessari sul sito a ciò dedicato restano al momento privi di finanziamento. Inoltre, salvo casi isolati, la risposta da parte delle grandi aziende all’incentivo art-bonus è stata “quasi nulla”, come riconosciuto dallo stesso ministro (“serve un balzo in avanti del mondo imprenditoriale italiano”). Considerato che detto beneficio era stato elaborato proprio al fine di sollecitare le elargizioni da parte di questa categoria di soggetti, ci si chiede se i dati emersi dalla sperimentazione finora attuata non avrebbero dovuto indurre il legislatore ad apportare alla misura, prima della sua stabilizzazione, modifiche idonee a renderla più attrattiva, anche eliminando eventuali elementi deterrenti (“la burocrazia rischia di uccidere le migliori intenzioni”) per coloro nei cui riguardi non ha operato come previsto.
Tra gli esempi, si potrebbe ancora enumerare il Tfr in busta paga che, secondo i tecnici del governo, avrebbe avuto “effetti positivi su (…) redditi, consumi e finanza pubblica”, ma il cui insuccesso era stato dettagliatamente previsto e viene confermato; o il progetto Garanzia Giovani, il cui “fallimento era, purtroppo, abbastanza annunciato” e ha continuato a essere ribadito; inoltre, il canone Rai in bolletta già viene definito come prossimo flop potenziale e suscita dubbi che rischiano di divenire certezze.
Ritenere che da un atto normativo possano derivare precisi comportamenti, in mancanza di un’analisi ex ante circa il funzionamento dei meccanismi e delle caratteristiche di cui lo si è provvisto e degli oneri connessi al suo utilizzo, nonché senza una verifica successiva degli effetti reali che ha prodotto, al fine di operarne eventuali aggiustamenti, non solo espone i regolatori a maggiori probabilità di fallimento, ma si traduce in costi certi per i soggetti regolati. Lo svolgimento di serie valutazioni di impatto preventive e la considerazione delle evidenze concrete dimostra l’accountability dei decisori: sulla base di quanto sopra riscontrato, può reputarsi che quelli nazionali ne siano provvisti?
di Vitalba Azzollini, funzionario Consob
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