Intervista a Lorenzo Vidino, autore di "Il Jihadismo autoctono in Italia". "Qui condizioni diverse rispetto alla Francia, le seconde generazioni non sono radicalizzate". I gruppi che spingono alla violenza "sono solo alla stato embrionale". Ma le organizzazioni più rappresentative "hanno un visione forte e politicizzata. E qualcuno potrebbe fare il passo in più"
Dopo la strage di Parigi, l’allarme attentati arriva anche in Italia. Ma chi potrebbe metterli in atto? Esiste anche da noi il rischio che a passare all’azione siano jihadisti autoctoni, nati e cresciuti qui, come è accaduto in Francia e in altri Paesi europei? “Alcune delle condizioni esistono anche da noi, ma certo su scala molto ridotta rispetto alla Francia”, afferma Lorenzo Vidino, esperto dell’Ispi, direttore del Programma sull’estremismo del Center for Cyber and Homeland Security dell’Università George Washington nella capitale Usa e autore della ricerca “Il jihadismo autoctono in Italia”.
Per prima cosa, qual è il suo giudizio sulla strage del 13 novembre? Ci dice qualcosa di nuovo sui jihadisti europei?
Vedo una conferma delle dinamiche che conosciamo. Gli autori sono giovani di seconda o addirittura di terza generazione, legati fra loro da forti vincoli familiari, o da amicizie d’infanzia, con esperienze di combattimento in Siria e un passato di microcriminalità.
Lei ha pubblicato l’anno scorso una ricerca sul jihadismo autoctono in Italia. Vede il rischio che certi meccanismi si replichino anche da noi, dove i residenti originari di Paesi musulmani sono circa un milione e 600mila?
Alcune delle condizioni esistono, ma su scala ridotta rispetto alla Francia, dove i musulmani sono tra i 5 e i 6 milioni. In Italia non abbiamo le banlieue né assistiamo a una radicalizzazione delle seconde generazioni, realtà per noi recente. E sono i giovani che materialmente si armano e vanno a combattere in Medio oriente. Da noi le organizzazioni jihadiste già esistono, ma solo in forma embrionale, mentre in Belgio (dove risiedevano alcuni degli attentatori di Parigi, ndr) ci sono associazioni forti, per esempio Sharia4Belgium, che fanno proselitismo nella lingua del Paese che le ospita. Non a caso il Belgio è il paese con il più alto numero di foreign fighter conosciuti “pro capite”, 600 su circa 600mila musulmani.
E gli italiani?
I nostri sono molti di meno e i casi che ho preso in esame nella ricerca sono risultati isolati. Come quello di Giuliano Del Nevo, un convertito italiano proveniente da una famiglia della media borghesia genovese, che si è trovato più a suo agio nella comunità islamica che non in quella nazionale a cui apparteneva. Una conferma che non c’è neppure un legame forte fra jihadismo autoctono e mancanza d’integrazione.
Però lei stesso ha sottolineato come le principali organizzazioni islamiche in Italia abbiano una visione radicale dell’Islam.
Certo, le principali organizzazioni italiane hanno la visione di un Islam forte e politicizzato, ma rigettano la violenza. Producono però una sorta di “musica di fondo” fatta di ‘Islam sotto attacco’, ‘Occidente che complotta contro i musulmani’, violenza che ‘a volte è giustificata’. Il rischio che qualcuno faccia in autonomia il passo successivo c’è. Parliamo di un ambiente fluido, non controllato dall’alto. Dove però sono le organizzazioni più conservatrici a ottenere maggiori finanziamenti, e quindi ad attrarre potenzialmente più persone. Questo può avere ripercussioni negative. Rispetto alla comunità musulmana, al momento più del jihadismo deve preoccupare l’estremismo.