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Bce, Draghi contro la deflazione: tutto il necessario non basta più

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Un paio di anni fa questo articolo sarebbe stato in prima pagina e molto più lungo. Perché la notizia pare di quelle epocali. Ieri il presidente della Banca centrale europea ha detto: “Se decidiamo che l’attuale traiettoria della nostra azione non è sufficiente a raggiungere l’obiettivo (l’inflazione al 2 per cento annuo, ndr), faremo tutto quello che dobbiamo per alzare l’inflazione il più in fretta possibile”. In inglese: “We will do what we must”, che assomiglia molto a quel “whatever it takes”, la promessa di fare tutto il necessario, del famoso discorso del 26 luglio 2012, quando Draghi fermò con la sola forza delle parole il panico attorno all’euro.

Alla riunione del Consiglio dei governatori di dicembre, come molti si aspettano, la Bce potrebbe quindi potenziare il suo bazooka anti-deflazione: aumentare gli acquisti mensili da 60 miliardi, allargarne la gamma, prolungare la scadenza (prevista, ma non vincolante, per settembre 2016), aumentare la penalità per le banche che tengono immobilizzati i capitali presso Francoforte invece che metterli in circolo. Ieri, le Borse e il cambio euro-dollaro hanno reagito restando praticamente piatti, dopo qualche sussulto.

Draghi ha perso il suo magic touch? I suoi impegni solenni lasciano le prime pagine dei giornali e i pensieri dei trader per colpa dei numeri: l’inflazione annuale nell’eurozona è sempre inchiodata, allo 0,1 per cento. Nonostante gli sforzi della Bce e di Draghi in persona. La politica monetaria ha fallito? Nel suo discorso Draghi sostiene di no: ha fatto quello che poteva, il Quantitative easing ha spinto in alto i valori di immobili e titoli azionari (creando un “effetto ricchezza” che può spingere i consumi), ha ridotto i costi di finanziamento deprimendo i tassi di interesse da pagare, le imprese piccole e grandi trovano credito più a buon mercato. E i rischi di finanziamenti troppo generosi a chi non li merita sono contenuti grazie alla nuova vigilanza europea sulle banche. La domanda, quindi, per Draghi non è se il Quantitative easing funziona. Ma se è grande abbastanza.

Il vicedirettore della Banca d’italia, Fabio Panetta, in un intervento presentato ieri ha mostrato però un po’ meno certezze. Il Qe funziona, ma nessuno sa esattamente stimare come: i meccanismi di trasmissione nel mercato finanziario sono prevedibili, quelli dalla finanza all’economia reale molto meno. I critici dicono che il Qe aiuta i ricchi (che hanno asset finanziari e case), tiene in vita imprese decotte, incentiva i governi a rinviare misure di aggiustamento inevitabili. E che forse l’inflazione bassa non è un problema ma, essa stessa, uno stimolo all’economia. L’ex presidente della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, ha elaborato un suo test per misurare l’efficacia del Qe: “Se il lavoratore medio avesse la scelta tra lo status quo (le attuali politiche della Banca centrale) e una situazione con mercato del lavoro più debole e prezzi delle azioni più bassi, cosa sceglierebbe?”. Le cose non vanno bene, ma senza Qe andrebbero peggio. Poco scientifico ma chiaro. Panetta dice però che i banchieri centrali non sanno bene chi ci guadagna e chi perde davvero. La redistribuzione è la specialità dei politici, non della Bce.

E il vero problema di Draghi è proprio questo. La Bce ha fatto la sua parte, ora toccherebbe ai governi. Ma, come scrive l’economista Innocenza Cipoletta nella newsletter InPiù, che senso ha una politica monetaria espansiva in un momento in cui i vincoli europei di bilancio continuano a imporne una fiscale restrittiva?

il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2015