BRESCIA – Il ‘Va pensiero’ è tornato a suonare a tutto volume sotto la tensostruttura di via San Zeno. Il congresso Nazionale della Lega Lombarda è iniziato così, alla vecchia maniera. I delegati sono scattati in piedi, sull’attenti, mano sul petto e sguardo fiero. Le ultime note si sono fuse con il rumore degli applausi. Pareva di aver compiuto un salto indietro nel tempo – giusto di qualche anno, prima dell’era Salvini – quando l’inno padano era d’uopo ad ogni raduno, immancabile come i foulard verdi e le bandiere col Sole delle Alpi. E qualcuno, nel corso degli interventi che sono seguiti, lo ha fatto anche notare: “Troppo spesso ci dimentichiamo di suonare il nostro inno” e promette: “Torneremo a farlo in tutti gli eventi della provincia”.
Sabato mattino dietro al palco campeggiava, immensa, una scritta: “Lombardi, Roma vi ruba 153 milioni al giorno” e, più sotto: “Riprendiamoci il nostro futuro senza aspettare un giorno in più”, poi, la chiusura: “Liberi di decidere fino all’indipendenza“. Tre frasi che sarebbero state assolutamente in tono con gli argomenti, lo stile e le velleità della Lega di Bossi, ma stridono – e non poco – con le aspirazioni nazional popolari del felpato Salvini che qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere della Sera, è arrivato a mettere in discussione l’articolo 1 dello statuto, quello che da sempre rappresenta il faro dell’azione politica di ogni militante del carroccio: l’indipendenza della Padania (lo citiamo qui per esteso. Sotto il titolo “finalità” il famigerato articolo uno recita: “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania è un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta che ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”).
Un’ipotesi che Salvini ha lanciato in pasto all’opinione pubblica forse per sondare umori e reazioni, forse per ingentilirsi davanti agli occhi dei moderati d’OltrePo’. Quali fossero le ragioni reali di quella sortita lo sa probabilmente solo lo stesso segretario leghista. Certo è che la reazione del partito è stata chiara: “L’articolo uno non si tocca“, l’idea della Padania rimane nei cuori dei leghisti. Qualcuno, a scanso di equivoci lo ha anche ribadito a voce, scandendo a più riprese il vecchio intramontabile slogan “Se-ces-sio-ne se-ces-sito-ne”.
Non c’è stata, a rigor di cronaca, alcuna contestazione nei confronti del leader maximo Matteo Salvini. Al contrario: è stato acclamato con tutti gli onori del caso, come un salvatore della patria, artefice di quel miracolo che ha visto resuscitare la Lega Nord dal limbo dell’inconsistenza politica fino alla posizione di testa di serie della (acciaccata) destra italiana. Ma la sua boutade non è nemmeno passata come acqua sul marmo. A più voci e durante tutta la mattinata si sono ripetuti i richiami al passato, allo statuto, alla missione originaria: “Va bene aprire al consenso di chi fino a ieri non condivideva la linea leghista, ma non dimenticarti del tuo elettorato storico, di quelli che non hanno smesso di crederci nemmeno quando eri al tre e mezzo per cento”. Proprio mentre Salvini, con il volto affaticato, entrava nel tendone del congresso stringendo mani e selfeggiando tra la folla, il segretario provinciale bergamasco Daniele Belotti, ha tuonato dal palco: “Dobbiamo essere padroni a casa nostra, noi non possiamo tradire un giuramento fatto il 15 settembre 1996” e, dopo di lui, al coro si sono aggiunti anche altri: “Non molleremo fino all’indipendenza”; “Il futuro è l’indipendenza”; “Milano è e sarà sempre la capitale della Padania libera e indipendente”; Davide Boni, fresco di elezione alla segreteria meneghina, ha aperto il suo intervento con un inequivocabile “Padania libera”, rievocando poi “i manifesti di 25 anni fa, ancora attualissimi, che parlavano di immigrazione, federalismo, secessione e rimangono il segnale forte di chi siamo noi”.
La risposta di Salvini è arrivata durante il suo lungo intervento, quando ha cercato di rasserenare gli animi, spiegando sì le proprie ragioni, ma anche ribadendo le proprie intenzioni. “Io sono qua per vincere, non per partecipare” ha detto. Poi ha cercato l’intesa con il suo pubblico: “Il problema è lo stato italiano, che noi vogliamo decomporre e ricomporre. Io ho la tessera della Lega in tasca da 26 anni e ringrazio Bossi per questo, le infamate le lascio al Pd, non sono abituato a sorridere in faccia per sparlare alle spalle. Preferisco la critica costruttiva alla pacca sulla spalla di circostanza. Se ogni tanto sbaglio preferisco che veniate a dirmelo, più del finto complimento”. E dopo aver ammorbidito l’uditorio ha introdotto il tema, riproponendo il concetto dell’apertura delle sezioni, dell’allargamento delle maglie della selezione: “Apriamo, usiamo la testa, usiamo il coraggio, contaminiamoci di energie positive, ovviamente facendo selezione all’ingresso. Ma non abbiamo paura di aprirci”.
Insomma, secondo Salvini una Lega chiusa in sé stessa e arroccata nel fortino padano non vince. Deve diventare un partito nazionale, anche se per molti leghisti questo rappresenta un passaggio doloroso. Ecco quindi l’affondo del segretario: “L’autodeterminazione dei popoli non la scelgono Bossi o Salvini, nasce con l’uomo e muore con l’uomo. La possibilità di essere liberi non sta su un foglio di carta (lo statuto, nda), sta nel cuore di ciascuno di noi e io non me lo dimentico e non me lo dimenticherò. Il mio onere è di capire come”. Insomma, l’indipendenza della Padania potrà restare nel cuore di tutti i leghisti (ma forse non più sulla carta), tanto che è Salvini stesso a mettere il dito nella piaga: “Le abbiamo provate tutte in questi anni: federalismo, secessione, devolution, federalismo fiscale, federalismo demaniale, macroregioni, io so dove devo arrivare ma il mio dovere è usare il consenso per capire come, senza togliere qualcosa a qualcuno, ma sento come dovere umano prima ancora che politico quello di allargare”.
E promette: “La Lombardia se lo vorrà avrà diritto allo statuto speciale e a gestirsi le sue tasse, questo è nel cuore di ciascuno. La scommessa è chiedersi: mi fermo qua o no? Vado fino a Pescara? Difendo anche altre realtà che vogliono essere liberate da Bruxelles?”. In chiusura tira fuori dal cilindro il padre nobile del leghismo delle origini: “Facciamo una cosa – propone – rileggiamoci Gianfranco Miglio, non confondiamo il metodo con il merito. Io tiro dritto e non mi fermo davanti a nessuno perché voglio vincere. Se me lo chiedono in Salento vado in Salento, se la Sardegna vuole sostegno io dico di sì… è questa la scommessa, tornare padroni del nostro futuro”. Il camaleontico Salvini ha colpito ancora, è riuscito a smettere i panni del leader nazionale per rivestire la casacca verde del condottiero padano, tutto cuore e muscoli. Ma per capire se è riuscito ad incantare e convincere i leghisti della platea bresciana occorrerà aspettare fino alla prossima primavera, quando la Lega andrà al rinnovo delle cariche federali e Salvini metterà sul tavolo il proprio mandato, cercando di far passare dal congresso la sua linea politica.