PARIGI – Come se non bastassero le immagini della “notte maledetta” sempre in testa, ci sono le guardie ogni mattina all’entrata dell’università a ricordare che a Parigi qualcosa è cambiato. Guardano dentro le borse, chiedono i documenti e controllano sotto le giacche degli studenti. Sul portone all’entrata di Science Po c’è un cartello con un triangolo rosso: “Allerta terrorismo“. Nella bacheca dell’atrio della Sorbona un annuncio: “Chi ha voglia di parlare o solo di un luogo calmo può venire nell’aula B12”.

I kamikaze hanno colpito nel cuore della Parigi dei più giovani e ora loro, quelli spavaldi con la vita in mano, sono costretti ad avere paura. “Siamo in guerra, basterebbe che i politici fossero onesti con noi”, dice Frédéric Savelli, 21 anni e iscritto alla facoltà di Biologia. “C’è stato un attacco, ora sappiamo che ci sarà un contrattacco francese. Solo non ci prendano in giro. Bisogna dirlo: siamo in guerra”. Nell’atrio dell’Université Paris Descartes tutto è rimasto come sempre. Il via vai davanti alla macchinetta del caffè, i gruppi di studio in mensa e il cortile per i fumatori. Solo che per arrivarci bisogna superare i controlli di sicurezza. “Non so se servano davvero”, commenta Ariadne Meyer, 20 anni. “Ma almeno ci fanno sentire più sicuri: noi adesso abbiamo paura”.

L’edificio è nel cuore del quartiere latino di Parigi. A pochi metri di distanza c’è  la chiesa di Saint-Germain de Prés e il Café de Flore, quello dove i filosofi stavano seduti ai tavolini in terrazza. Un quartiere ricco, pieno di turisti e sempre sotto sorveglianza, ma da alcuni giorni sono aumentati i controlli in tutte le università della zona. “Non avrei mai pensato che sarebbe potuta succedere una cosa del genere”, continua Meyer che ha 19 anni ed è iscritta al primo anno di Scienze della salute. “Così nel cuore della città. Hanno voluto colpire i giovani perché sono invidiosi e arrabbiati: noi siamo più fortunati e quelle feste ne sono il simbolo. Ma del resto noi andiamo ad ucciderli in Siria. La Francia ha molte responsabilità”.

Gli studenti sono tornati a scuola lunedì scorso. Alcuni professori hanno dedicato un po’ di tempo a parlare degli attentati di poche ore prima, altri, raccontano gli studenti, hanno chiesto “ça va?” e poi hanno iniziato a spiegare. “Le lezioni non sono il luogo adatto per parlare di queste cose”, commenta Géraldine Carranante, 25 anni, studentessa di Scienze cognitive. “Ci sono tanti dibattiti organizzati. Io sono tranquilla. Non credo che i terroristi volessero colpire i giovani, semplicemente volevano scioccare. La guerra in Siria? Non era una buona idea prima, adesso però mi sembra che non abbiamo altra scelta”.

Nell’atrio che porta alla biblioteca di Scienze sociali passano decine di facce. Ognuno di loro ha un amico di un amico che è rimasto coinvolto negli attentati e ognuno di loro venerdì sera era da qualche parte nei paraggi. Imene Lafraui è algerina, ha 18 anni e vive a Parigi da cinque: “E’ orribile quello che è successo. Sono musulmana e sono sconvolta. Quelle persone odiano la vita, perciò hanno deciso di colpire i giovani. Di sicuro non rappresentano l’Islam”. L’ha ripetuto molte volte negli ultimi giorni, persino a chi non glielo aveva chiesto. Bastano sguardi un po’ “obliqui” al velo che indossa in testa e ci si sente in dovere di giustificarsi. “Ho paura degli attentati, ma anche di chi confonde la religione con quegli usurpatori”.

I poliziotti sono in ogni angolo di Parigi. Sulla metro la sorveglianza è triplicata e persino all’ingresso dei negozi si è perquisiti: “E’ il minimo necessario”, dice Albin Selini, 18 anni, studente di matematica. “Continuiamo la vita di sempre, ma ora che abbiamo visto gli effetti concreti delle minacce dell’Isis non possiamo non essere preoccupati. Spero solo che i nostri politici non agiscano per un colpo di testa. Non si fa la guerra in preda alle emozioni”. Schiocca le dita per dare un suono alla sua idea di una scelta presa senza pensare. Lo ferma una professoressa e gli consegna i risultati dell’esame. “Ora devo andare”. Albin volta l’angolo trascinando i piedi e la sua borsa piena di libri.

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