Si trasforma una tragedia come gli attentati di Parigi in un’occasione di business e si sfruttano il dolore e l’emozione di milioni di persone in tutto il mondo per far soldi a palate. A molti, per fortuna, sembrerà un’idea assurda, immorale, disumana ma a qualcuno è sembrata una buona idea, forse persino un’idea geniale.
Ed è accaduto così, che nei giorni scorsi l’Ufficio francese dei marchi e brevetti si è visto costretto a respingere un certo numero – non è ancora chiaro quante – di domande di registrazione come marchio delle espressioni “pray for paris” e “je suis Paris”, divenute, a ridosso dei fatti di Parigi, il simbolo della partecipazione del mondo intero al dolore ed al cordoglio per le vittime degli attentati terroristici.
In un comunicato di venerdì scorso, l’Inpi – l’ufficio dei marchi francesi – ha messo nero su bianco che non registrerà alcun marchio contenente tali espressioni, ritenendo che non sussistano i necessari presupposti di legge.
Non si è ancora pronunciato, invece, l’ufficio tedesco dei marchi e brevetti davanti al quale, esattamente il giorno dopo la tragedia – il 14 novembre – Phillipp Rau, un cittadino tedesco di Amburgo ha chiesto di registrare come marchio “#PrayForParis” per contraddistinguere gadget, bigiotteria, gioielleria, prodotti editoriali e capi di abbigliamento.
E navigando nei database internazionali degli uffici marchi e brevetti si scopre che l’idea di trasformare in business tragedie come quella di Parigi non è nuova, né originale.
Già dopo l’attentato terroristico nella redazione di Charlie Hebdo, infatti, numerosi imprenditori in giro per il mondo si sono precipitati a chiedere la registrazione come marchio dell’espressione “Je suis Charlie”, divenuta, in una manciata di ore, soprattutto online, il simbolo virale della reazione internazionale alla tragedia.
E se, fin qui solo una società americana è riuscita ad ottenere la registrazione del marchio dall’ufficio marchi e brevetti messicano, sono, però, tante le domande di registrazione ancora pendenti e navigando nel database dell’ufficio brevetti italiano, si scopre che due vengono addirittura da aziende di casa nostra. La torinese Digital Galaxy S.p.A. con socio unico, precipitatasi a richiedere la registrazione del marchio “Je suis Charlie” il 9 gennaio – appena due giorni dopo la tragedia – e la Manifatture Rossi s.r.l. che ha, invece, atteso fino al 21 gennaio prima di inoltrare la propria domanda di registrazione di marchio.
La domanda della Digital Galaxy, presentata per la commercializzazione di servizi editoriali risulta allo stato sospesa, mentre quella della Manifatture Rossi – presentata perla commercializzazione di prodotti di abbigliamento – risulta tuttora in lavorazione.
Certo, in linea di principio, c’è spazio per pensare che le richieste di registrazione siano state strumentali a proteggere – non è chiaro come né perché – una qualche iniziativa di solidarietà dal rischio di sciacallaggio altrui ma è davvero difficile respingere il sospetto che siano state, al contrario, dettate proprio dall’intenzione di cavalcare l’onda del dolore internazionale per far business, soldi e profitti. E se così fosse dovrebbe parlarsi di autentico business del terrore, sciacallaggio commerciale della tragedia e disumanità imprenditoriale.
Comportamenti e condotte che non solo meritano di essere raccontate ma rispetto alle quali sarebbero necessarie risposte punitive dello Stato ferme, risolute e senza esitazioni.
Un Paese civile non può limitarsi – come pure giustamente ha fatto l’Ufficio francese dei marchi e come c’è da augurarsi farà quello italiano – a respingere una richiesta di registrazione di un marchio intriso di sangue ma deve scoraggiare con ogni mezzo chiunque voglia, per davvero, sfruttare il dolore altrui per scopi commerciali.
E, d’altra parte, basta navigare su Ebay per rendersi conto che all’indomani degli ultimi attentati di Parigi del 13 novembre, in tanti hanno deciso di approfittarne mettendo in vendita magliette e gadgets con l’espressione “pray for Paris” o l’ormai celeberrimo logo del simbolo internazionale della pace, con all’interno la sagoma della Torre Eiffel. E quest’ultimo è un gesto tanto più grave se si pensa che Jean Jullien, l’artista che ha creato il simbolo in questione, in un’intervista a Wired ha espressamente dichiarato di non aver intenzione di sfruttare in alcun modo il risultato del suo lampo creativo.
Non c’è crisi, né regola di mercato che possa consentire a chicchessia di speculare e provare a far soldi sulle tragedie altrui, specie quando si tratta di tragedie che, come quelle di Parigi, hanno colpito così duramente la nostra civiltà nel mondo intero.