La tragedia della frana che ha provocato più di 100 vittime nei pressi di una miniera di giada della Birmania settentrionale ci ricorda che, qualche giorno prima (5 novembre 2015) anche il sud est del Brasile era stato colpito da un disastro innaturale. Qualcun lo ha paragonato allo tsunami giapponese, non tanto per il numero di vittime, quanto per la possibile contaminazione di una vasta area. Il villaggio di Bento Rodrigues a Mariana, cittadina nello stato di di Minas Gerais sul rio Doce, è stato investito da un muro di fango, melma, residui minerali e rifiuti tossici, in seguito al crollo di due dighe che invasavano le acque reflue di lavorazione mineraria. Poiché l’inquinamento si è propagato a valle con potenziali effetti disastrosi, la presidente Dilma Rousseff, senza tema per l’iperbole, ha equiparato il disastro alla catastrofe ambientale del Golfo del Messico, causato dall’incidente sulla piattaforma petrolifera della British Petroleum.
Questo evento richiama alla memoria quanto accadde in Italia a Stava nel 1985. Se si considera la casistica dei disastri causati da rottura di dighe o, come nel caso del Vajont, da frane dei versanti nell’invaso, quello di Stava fu un evento minore sotto il profilo statistico. Ma fu tragico nel suo impatto. Non era una grande diga, bensì un piccolo serbatoio montano a uso industriale: il bacino di decantazione della miniera di fluorite del monte Prestavel in Trentino. La rottura degli argini scaricò quasi duecentomila metri cubi di acqua e fango sull’abitato di Stava, uccidendo 268 persone.
Vari studiosi affermarono che la semplice osservazione della morfologia della località su cui sorgevano i bacini di decantazione della miniera avrebbe dovuto sconsigliare la loro costruzione in quel particolare sito. Tra le cause del disastro fu anche accertata la cronica instabilità degli argini in terra, che non avevano i coefficienti di sicurezza minimi necessari a evitare la frana, e ci fu la condanna di una decina di imputati. Erano tecnici e dirigenti della società mineraria, ma anche tecnici pubblici che avevano omesso i controlli sulle discariche. E fu riconosciuta la responsabilità civile sia delle aziende private, sia dell’ente pubblico al fine del rimborso dei danni.
In seguito al disastro di Stava fu introdotta la prima norma, in materia di dighe, a fini di protezione civile, ossia la conduzione di studi delle aree soggette ad allagamento per tutte le opere di ritenuta già esistenti sul territorio nazionale, a seguito dell’ipotetico collasso dello sbarramento. Le mappe delle aree a rischio in caso di ‘dam failure’ furono costruite all’inizio degli anni ’90, giocoforza in modo rudimentale e poco preciso a causa del dettaglio grossolano dei mezzi cartografici digitali che si potevano utilizzare all’epoca e, quindi, dei modelli matematici allora disponibili. Queste mappe sono comunque utili e vengono custodite in Protezione Civile e nelle Prefetture, ma non sono del tutto sicuro che i Piani di Protezione Civile dei comuni italiani ne tengano sempre conto, né ho mai incontrato accenni alla loro esistenza nei ponderosi documenti dei Piani di Bacino, che dovrebbero associare alla pericolosità anche l’esposizione e la vulnerabilità dei territori a rischio.
E non è ancora chiaro, dopo quattro anni, quanto farà sul campo il decreto ‘Salva Italia’ del dicembre 2011 che aveva legiferato in merito alle questioni di sicurezza ed efficienza delle dighe italiane. Le quasi seicento grandi dighe italiane sono assai vetuste poiché hanno in media una sessantina d’anni e ce ne sono alcune, molto antiche, che giacciono inutilizzate e abbandonate. Singolare che tutta la faccenda fosse trattata nell’articolo 43 del decreto ‘Salva Italia’ sotto il criptico titolo di ‘Alleggerimento e semplificazione delle procedure, riduzione dei costi e altre misure’. Ma i legislatori italiani non hanno mai ceduto alla tentazione della comprensibilità e all’immediatezza, sirene alle quali solo i padri costituenti non seppero resistere.