Mi sono preparato molto prima di incontrare Muhammad Dibo. Ho letto diverse sue interviste rilasciate alla stampa araba. Raccontava cose terribili riguardo al carcere in Siria. Nei giorni precedenti al nostro incontro, mi sono domandato come avesse fatto a sopravvivere alle torture e come fosse la sua vita fuori dal carcere. Mi ero immaginato un uomo forte, alto e ripiegato su se stesso perché assediato dal dolore: nella mia mente, Dibo non poteva essere diverso da quell’immagine.
Avevo fissato l’appuntamento con Dibo alla caffetteria Laziz, a Hamra, Beirut. Arrivo mezz’ora prima dell’incontro e rileggo una sua lunga intervista rilasciata al quotidiano Al Arab. Intanto preparo le domande e guardo la foto nell’articolo. Alle 19 precise lo riconosco. Cammina spedito, mi cerca fra la gente seduta ai tavoli fuori. Io sono seduto dentro il locale. Alzo la mano. Lo fisso mentre si avvicina a me e mi chiedo «come ha fatto a sopravvivere?».
Dibo è minuto e ha un corpo esile che deve aver sopportato torture orribili. Mi soprende il suo sorriso, la sua gioia di incontrare gli altri. Saluta i camerieri per nome. «Vengo sempre qui. I ragazzi che lavorano da Laziz sono tutti siriani. Mi siedo, mangio e fumo il narghilè».
Gli confesso subito che sono contento dell’uscita del suo libro, E se fossi morto?, edito da Il Sirente e tradotto da Federica Pistono. «Penso che il suo libro possa aiutare la comprensione di quello che avviene in Siria, attraverso la sua storia personale. Non è questo il ruolo dello scrittore?».
«Lo scrittore siriano ha un posto molto debole», risponde con sicurezza Dibo, «ed è consapevole di non poter cambiare le cose nell’immediato, nel presente. E’ invece consapevole che ha un impatto nel futuro e aiuta gli altri a trovare la speranza. Guida la gente, nonostante le difficoltà, verso la strada giusta. In più, lotta per preservare l’umanità delle persone».
«Come si preserva l’umanità delle persone in carcere?»
«Prima di risponderle devo dirle che quando mi hanno arrestato, perché ho partecipato a una manifestazione pacifica nel marzo 2011 a Damasco, pensavo di sapere a cosa andavo incontro. Avevo letto molti libri di scrittori siriani che raccontavano le loro esperienze in carcere. Quando sono entrato, appena ho messo piede in quel pozzo oscuro, ho capito che tutto quello che avevo letto non era nulla. Non è la questione della tortura, il supplizio del corpo, ma è la rottura dell’anima che rende difficile descrivere quello che si prova. Nel mio libro mi sono concentrato su questo: il rapporto fra il carcere e l’anima. Ed è proprio il tentativo di salvare l’anima, l’umanità, che mi spingeva ad alleviare le sofferenze delle persone in cella con me attraverso la poesia». Dibo si ferma un attimo. Temo di essere entrato troppo nella sua intimità. «Se vuole non continuiamo. Non voglio forzarla», dico imbarazzato.
«No. Non si preoccupi. Ne ho fatto un libro. Sa che i miei compagni di cella mi avevano soprannominato il “poeta perfido” – ride. Recitavo molte poesie di Nizar Qabbani perchè parlano dell’amore e delle donne. Sentivamo una gran mancanza della figura femminile. Non intendo necessariamente di una fidanzata ma anche delle nostre mamme. Il mio interesse, recitando Qabbani e al Hallaj, era quello di creare una resistenza culturale. Cercavo un modo di farli uscire dalla cella, per un istante, attraverso la bellezza delle storie che raccontavo». Dibo si sofferma spesso sui contrasti del carcere, nel suo libro scrive «quel tale – riferendosi al secondino – picchiava con tutto l’odio immaginabile, trasformando il momento del passaggio in bagno in un inferno, che ci induceva, quando era possibile, a rinunciare, per scampare a quei colpi e a quegli attacchi di follia. Quella guardia arrivava al punto, a volte, di inseguire i reclusi per pestarli in cella (…) la cosa sconcertante era il fatto che quel secondino fosse un uomo bellissimo, al punto che qualsiasi ragazza, come tua sorella o tua nipote, si sarebbe potuta innamorare di lui».
«Ho letto in una sua intervista che lei ha provato a cercare i suoi compagni di prigionia. E’ riuscito a rintracciarne qualcuno?»
Dibo sorride. «Sono riuscito a rintracciarne uno. Ora vive come rifugiato in Turchia. Anche se ci sentiamo poche volte, la nostra amicizia è granitica. L’esperienza del carcere, della tortura, ci ha avvicinati. Siamo uniti per sempre».
«Possiamo dire che la prigione è rimasta dentro di lei?»
«Sì, perché ti insegna la paura. Quando bussano alla porta ho paura e quando una persona chiede di me, senza che io la conosca, ho paura perché penso che voglia farmi qualcosa. La scrittura mi aiuta a curarmi, è tutto per me».
«Una volta, qualcuno mi disse che la vera rivoluzione sarebbe arrivata quando ogni siriano avesse eliminato il piccolo dittatore dentro di lui e il piccolo uomo dei servizi segreti. Che ne pensa?»
Dibo ride di gusto, compiaciuto. «Ha ragione chi le ha detto questa frase. E’ l’insieme dele norme culturali e morali costruite dal regime ad aver prodotto la società che vediamo oggi. Il giorno in cui riusciremo, noi della società civile, a fare una rivoluzione culturale nella società quel piccolo dittatore, copia di quello in Siria, e l’uomo dei servizi segreti cesseranno di esistere. Per questo avremo bisogno di un minimo di dieci anni, dopo la caduta del regime, per compiere questa rivoluzione culturale che dovrà coinvolgere anche la questione della laicità».
«Perché non va all’estero, intendo in Europa, per cominciare una nuova vita?», chiedo provocatoriamente.
«Devo rimanere in un posto vicino al mio Paese. E’ questo quello che sento. Quando leggevo riguardo all’esilio credevo che fosse una cosa bella. Oggi dico che è la cosa peggiore. Quando non puoi stare insieme a tua mamma mentre è in ospedale, in sala operatoria; quando tua sorella si sposa e tu non ci sei, non sei con lei, è doloroso».
Io e Dibo ci salutiamo calorosamente. Lo ringrazio del tempo che mi ha concesso e penso che la scrittura, quando aiuta la conoscenza dei drammi, sia qualcosa di potente.