Il massacro di Parigi del 13 novembre 2015 ha innescato lo stesso Grande Meccanismo dell’attentato alle Torri Gemelle, dell’11 settembre 2001 a New York. Si è trattato, oggi come ieri, di storie dense e appiccicose, come il sangue: in esse, tutti hanno grondato sangue, vittime e carnefici; è stato il mondo stesso a grondare sangue. Oggi, come ieri, ognuno sarà chiamato a pagarne il prezzo e a portarne il lutto. Nessuno sembra, però, voler affrontare la lezione dei quattordici anni trascorsi dall’11 settembre 2001. Eppure, è sotto gli occhi di tutti il fallimento dei politici occidentali e dei leader regionali: l’Afghanistan registra oggi una presenza crescente di talebani; la Libia è sprofondata nel caos e la presenza islamista è lì sempre più forte; più di quindicimila sono i civili morti ammazzati in Iraq solo nel 2014, mentre intere aree del Paese sono ormai sotto il controllo dell’Isis; circa trecentomila le persone uccise in Medio Oriente e Nordafrica, centinaia di migliaia i feriti, milioni le persone costrette a lasciare le loro case; il caos in Siria e la diffusione delle idee dell’Isis in Afghanistan, nel Caucaso e nell’Africa Nordorientale completano il quadro.
Vi è nel diritto romano un istituto che può considerarsi l’archetipo di quello che chiamo Grande Meccanismo: se aveva notizia di una situazione che metteva in pericolo la Repubblica, il senato emetteva un senatus consultum ultimum, con cui chiedeva ai consoli o a chi ne faceva le veci a Roma di adottare qualsiasi misura necessaria per la salvezza dello Stato: rem publicam defendant, operamque dent ne quid republica detrimenti capiat. Alla base di questo senatoconsulto c’era un decreto che dichiarava il tumultum, cioè la situazione di emergenza conseguente in Roma a una guerra esterna, a un’insurrezione o a una guerra civile, e dava luogo di solito alla proclamazione di un iustitium (iustitium edicere o indicere), implicante un intervallo, una specie di cessazione del diritto come tale e non una semplice sospensione dell’amministrazione della giustizia.
A questo modello può ricondursi il Patriot Act approvato il 24 ottobre del 2001, sull’onda dell’emozione per gli attacchi dell’11 settembre negli Usa. Si trattò, in questo caso, di una misura che mostrava l’intenzione di George W. Bush di estendere il proprio controllo sulla vita pubblica, come sono lì a dimostrare le res gestae dell’allora ministro della giustizia John Ashcroft, un estremista cristiano di destra, che usò tutti i poteri forniti alle forze di polizia e alla magistratura Usa dal Patriot Act, per cambiare, di fatto, la costituzione materiale degli Stati uniti. Anche il presidente francese François Hollande, tre giorni dopo gli attentati di Parigi, si è sentito in dovere di mostrarsi all’altezza della sfida lanciata alla Francia dal terrorismo jihadista. E davanti ai deputati e ai senatori, riuniti a Versailles il 16 novembre 2015, lo è stato sicuramente: gli “atti di guerra” contro la Repubblica non gli consentivano tentennamenti. Sicché, con fredda, marziale, “impietosa” determinazione ha promesso di “mettere tutta la forza dello Stato al servizio della protezione dei cittadini” e di “sradicare il terrorismo”, chiedendo ad un tempo la decretazione dello stato d’emergenza, per la durata di tre mesi. I parlamentari l’hanno seguito tutti: alzandosi in piedi e intonando una solenne Marsigliese.
Inutile chiedersi se abbiano avuto ragione o torto il presidente Hollande e il Parlamento francese, di fronte agli attacchi parigini, a parlare di “guerra”: il fatto che i terroristi, mentre si dichiarano soldati, si comportano invece da criminali, legittima senz’altro le riserve che l’uso del termine “guerra” può provocare, ma la decisione di muoverla è stata presa dall’aggressore e all’aggredito non è restato, dunque, che mettere in campo i mezzi per difendersi. Necessario è, piuttosto, cogliere le specificità di questa nuova “guerra” e le sue implicazioni, in termini di reazione.
Essa, innanzitutto, è il prodotto dell’intrecciarsi progressivo, sino ad apparire inestricabili, di diversi tipi di guerre: civili nazionali e transnazionali; “di civiltà”; interstatuali, sebbene quello islamico sia magari ancora uno Stato in via di formazione. Si tratta inoltre di una “guerra” che, se per un verso fa esplodere tutti i conti lasciati in sospeso dal colonialismo e dagli imperi, come minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitrariamente, risorse espropriate, aree d’influenza contese, giganteschi contratti per la vendita di armamenti, per l’altro, ravviva ed esalta odi teologici millenari, quali gli scismi islamici e lo scontro fra i monoteismi e i loro surrogati. Finalmente, è “guerra diffusa”, nella quale il nemico è senza volto, la violenza può esplicarsi ovunque e colpire chiunque, in modo aleatorio e discontinuo, così da diffondere il terrore.
Ex abrupto, la risposta alla “guerra diffusa” innescata dal terrorismo non può che essere il rafforzamento delle misure di polizia. Non v’è, tuttavia, chi non veda come sia pericoloso per la democrazia contrapporre “sicurezza” e “libertà”. Superato, dunque, il primo momento di legittima emozione, sarebbe necessaria un’actio finium regundorum tra due forme di “sicurezza”: quella poliziesca, col necessario sovraccarico di controlli, sulle persone sospettate di radicalismo in vista della prevenzione d’altri attentati, e quella giudiziaria, che garantisce i diritti e le libertà fondamentali. È, infatti, indispensabile che la prima non soffochi la seconda, così da evitare che l’eccesso di sicurezza uccida la sicurezza stessa. Occorrerebbe, altresì, che ciascuno costruisca, lavorando su se stesso, un nucleo di resistenza al terrorismo, così da non cedere alle logiche della paura e dell’odio, così preservando il senso della giustizia. La “guerra diffusa” tende, infatti, a diffondere la sua mostruosità, sin dal momento in cui si comincia a dire che per combattere efficacemente un nemico tanto pericoloso bisognerebbe divenire un po’ simili a lui.