A cosa servono i nuovi soldi dell’annunciata messa sul mercato del 40% di Ferrovie in un settore che, in questi anni, ne ha divorati talmente tanti al punto di aver contribuito alla formazione del 12,5% del debito pubblico nazionale lordo? Fino ad ora con il crescere delle risorse pubbliche trasferite, ma utilizzate malamente visto l’esito della spesa, si è rafforzato un sistema gestionale monopolistico e protetto delle Ferrovie che ne ha aumentato il controllo politico/clientelare da parte dei suoi potenti produttori e fornitori di materiali e servizi. Sono state strumentalmente utilizzate le proteste e le indignazioni dei pendolari e le richieste degli Enti locali, con il trasferimento di sempre maggiori risorse a pioggia destinate al settore. Nessuna priorità di spesa, nessuna analisi costi benefici per gli investimenti, piani d’esercizio che confondevano i servizi universali con quelli a mercato e poche gare per l’affidamento dei servizi a livello regionale.
E’ così che i tanti sussidi pubblici non bastavano mai e non miglioravano la qualità dei servizi di trasporto ferroviari e i risultati della gestione. Sembra giunto il momento che il governo riveda questi meccanismi di spesa, facile e irresponsabile, che ha fatto crescere le clientele ed il consociativismo in una delle più potenti corporazioni nazionali. Quelle risorse dovevano e potevano invece migliorare la qualità e le quantità dei servizi.
Certo di strada da fare ce n’è per rilanciare le ferrovie italiane, se è vero che nella classifica delle ferrovie europee la nostra posizione è scesa dal 9 al 12 posto. Infatti l’Italia flette da 818 a 715 km per abitante di percorrenza media, segnando un meno 12,6%. Eurostat ha reso noto il numero dei passeggeri medio per abitante di ogni Paese membro nel periodo che va dal 2000 al 2012. In cima alla classifica continua a svettare il paese di maggior tradizione ferroviaria come la Svizzera con 2.450 km percorsi per abitante. Ciò significa che il decollo dell’alta velocità non è riuscito a tamponare le perdite di percorrenze in altri settori (Intercity, regionali ecc.). La robusta crescita di passeggeri/km che doveva esserci con l’alta velocità non c’è stata. Eppure le risorse spese per le infrastrutture sono state in linea con quelle europee, ma a parità di spesa, si sono costruiti meno km di nuove linee di Alta Velocità rispetto a Spagna o Francia e le risorse rimaste per nuove tecnologie, nuovi treni per la rete tradizionale sono state insufficienti. Ancora troppo alti i costi di gestione e assente la concorrenza nel segmento pendolare ed interregionale, che sviluppa 3 milioni di passeggeri al giorno contro i circa 100 mila dell’A.V.
Il governo, dall’analisi di questi dati, dovrebbe riflettere su strategie e obiettivi sempre dichiarati, ma mai attuati dalle Fs, come quelli di far crescere la mobilità sostenibile in tutta la penisola. E’ per questo che suscita perplessità il progetto di privatizzazione approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Due sono i punti in questione. Prima di indicare la strada della parziale privatizzazione (40%) dei segmenti gestionali di Trenitalia, quindi esclusa la Rete che deve rimanere in mano pubblica, va definito il quadro regolatorio del mercato ferroviario. Prima della quotazione e della successiva vendita del 40% delle azioni, va definito il contesto in cui si muoverà il settore ferroviario (passeggeri, merci e servizi). A monte andrebbe ben delineata la liberalizzazione, cioè il contesto competitivo del settore e a valle, andrebbero definite le modalità (quantità e tempi) e obiettivi della vendita. Metodo usato in Europa. Un conto è essere azionisti di imprese che poggiano su assetti monopolistici come quelli creati con la privatizzazione delle autostrade e degli aeroporti, un conto è essere azionisti di un’impresa in un mercato liberalizzato.