Scrivere di Freddie Mercury e della sua dipartita cercando di volare un po’ più alto di quanto è già stato detto (cioè tutto) è cosa impossibile. Leader e co-fondatore dei Queen, autore tra i più importanti degli ultimi 40 anni, cantante pazzesco, icona (in maniera abbastanza involontaria) di un movimento gay che in quegli anni emetteva i primi vagiti: il 24 novembre del 1991 se ne andava tutto questo. Durante quella giornata londinese di quasi 3 decadi fa, dopo mesi passati tanto a cercare di curarsi invano tanto a nascondersi dagli occhi mai indiscreti dei fotografi d’oltremanica, si consumava il mito di un personaggio sempre fuori dagli schemi e che la morte – una delle prime ‘eccellenti’ per Aids – ha celebrato forse un pelo di più rispetto al ‘dovuto’.
Non fraintendetemi: non cerco la guerra e vengo in pace ma da amante dei Queen, che credo di poter dire senza tema di smentita essere stati il mio primo vero e proprio amore musicale, sento comunque di voler dire la mia su tanti dei luoghi comuni che girano sull’argomento. Freddie Mercury era una star, ed è stato uno degli artisti più amati “dei suoi tempi”: basta tirare in ballo l’esibizione degli stessi Queen al Live Aid del 1985 dove nel giro di un set brevissimo annichilì e rese inutile la salita sul palco di tanti illustri colleghi.
Ciò detto, credo la sua grandezza risiedesse sì nelle doti ‘naturali’ che lo riconducono a noi, tuttora, come se fosse ancora carne ed ossa ma anche, se non sopratutto, nell’amalgama speciale che dei Queen fu un po’ l’ingrediente principale: raramente infatti un gruppo di simil portata ha visto i suoi singoli elementi, quasi per contrappasso, dar vita ad una serie di produzioni soliste veramente di poco conto.
In questo senso, quel “Mr. Bad Guy” dato alle stampe giusto qualche mese prima la citata performance potrà giusto alleviare i pomeriggi di noia di qualcuno ma non ha altre pretese se non quelle di strappare un sorriso abbastanza forzato: lo stesso dicasi per Roger Taylor e Brian May, sia mai. Ricordo ancora quando da fan incallito, in un’epoca in cui lo streaming non era che un’idea remota, acquistai incuriosito dal precedente ”Back To The Light” (album poco più che onesto) il successivo ”Another World”, sempre firmato dal riccioluto chitarrista: un’accozzaglia di suoni futuristi e ballad scontate a metà tra i provini del peggior Joe Satriani e qualche reminiscenza beatlesiana.
Ma la cosa che più di tutte ha reso Freddie Mercury una presenza imprescindibile nel mio ‘pantheon’ musicale è stata in realtà la sua coerenza e costanza: quella di un uomo che, consapevole da anni di essere destinato a diventare cibo per vermi di lì a breve, aveva deciso con tutto se stesso di incanalare ogni idea fluisse in lui nel percorso di una canzone definita. Una mission molto ‘impossible’ nella quale riuscì però quasi del tutto: fino a quell’ultima “Mother Love”, che dopo un primo straziante ritornello diventò il pretesto principale (forse) per i suoi ex compagni per andare avanti “come niente fosse”.
Animato dalla devozione che un tifoso di calcio ha per la sua squadra del cuore ho seguito i Queen dal vivo anche con Paul Rodgers, ho imparato a memoria il bellissimo concerto ‘tributo’ alla sua memoria tenuto nello storico stadio di Wembley l’anno successivo la sua ascesa al cielo e mai, dico mai, ho avuto il dubbio qualcuno potesse anche solo pareggiarne la grandezza. Di fronte all’immensità di Freddie Mercury, specie interpretativa, anche Robert Plant dei Led Zeppelin e Roger Daltrey degli Who sfigurarono ‘on stage’ come a dire “ma proprio a noi doveva toccare?”.
E a cospetto di più di qualche scivolone discografico cancellato, per come la vedo io, da quell’opera omnia stupenda che fu l’ultimo “Innuendo” (considerando ”Made In Heaven” una raccolta di inediti lavorati successivamente la sua morte), Freddie Mercury ci manca, mi manca quindi per la sua umanità e per il suo rispetto estremo nei confronti del pubblico, in un’epoca in cui la musica è frazionata in tanti piccoli snack del momento e parecchi, se non tutti, parlano di lui giusto per riempirsene la bocca senza averlo amato – come in molti hanno avuto modo e fortuna di fare – anche per le canzoni che i più non ricordano e che nessun ‘best of’ ha mai inglobato. Un errore che, ahimè, commette in primis chi vive nell’illusione (e nei soldi) di poterne contenere l’estro e l’unicità in un ologramma scialbo che più che ricordarcelo per quello che era, fa solo tanta tristezza.