E’ il 17 novembre 2005 quando il tabloid The Sun spara in prima pagina la foto di un vecchio dal volto ingiallito e scavato, sdraiato su un lettino di ospedale sommerso da tubi, sonde, cateteri, che dice “Non morite come me”. Una settimana dopo, il 25 novembre 2005, esattamente dieci anni fa, sul lettino del Cromwell Hospital di Londra quel vecchio devastato dall’alcool, che pochi anni prima si è già sottoposto a un trapianto di fegato, muore per un’infezione epatica. E’ George Best, uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, la cui fotografia è stata invece per anni quella di un bellissimo ragazzo, lunghi capelli e folte basette, simbolo della Swinging London e delle primavere occidentali degli anni Sessanta: intelligente, ricco, famoso, talentuoso, eccentrico, sovversivo, è il proletario che eccede la sua vita, l’immaginazione che sale al potere. Nel contrasto tra le due fotografie c’è tutto George Best, un nome che trascende la persona che lo ha portato, da quando i suoi genitori, il padre tornitore ai cantieri navali della capitale dell’Irlanda del Nord e la madre operaia in una fabbrica di sigarette, glielo hanno dato il 22 maggio 1946 a Belfast.
In questo contrasto tra le due immagini c’è la storia di un calciatore che è oramai passato alla storia per le sue frasi celebri – “Ho speso molti soldi per alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato” oppure “Se fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelé” –; le sue mille donne, belle, famose, impegnate; il suo rapporto di dipendenza dall’alcool, lo champagne che scorreva a fiumi ovunque intorno a lui, divinità dionisiaca adorata e adulata dalle folle; la sua pigrizia e la sua strafottenza che gli facevano saltare gli allenamenti, umiliare gli avversari e i giovani compagni di squadra. Il simbolo supremo dell’artista, del poeta maudit, che sperpera il suo talento, devasta la sua vita. Tutto vero, tutto giusto, ma è una narrazione che oscura la grandezza sul campo da calcio, immensa. Nei sei, sette anni in cui George Best (che a quindici anni è scoperto sui campi di Belfast da un osservatore del Manchester United e subito aggregato alla squadra di Matt Busby, il sopravvissuto alla tragedia di Monaco) gioca davvero a pallone, il suo posto è tra i più grandi di sempre.
A 19 anni ha già vinto un campionato e una sera di primavera, a Lisbona, segna in Coppa dei Campioni quattro gol al Benfica, che all’epoca è la squadra più forte in circolazione. I giornali portoghesi il giorno dopo chiamano quel ragazzino ribelle che veste con il pellicciotto e i pantaloni a zampa di elefante “o quinto Beatles”. Best è già nella storia. Eppure continua a giocare, a segnare (137 gol in 361 partite con il Manchester United) e a vincere: è un calciatore vero. Fisico gracile e minuto, è un maniaco del dribbling: finte, controfinte e cambi di passo cercando a ogni giocata di riprodurre gli arabeschi di Mané Garrincha, cui palesemente si ispira, e a cui aggiunge anche il tiro potente e il colpo di testa in elevazione. Brama il tunnel, l’irrisione massima dell’avversario, e una volta prima di una partita tra Irlanda del Nord e Olanda, lo annuncia pure ai danni di Cruyff: detto e fatto. Aspetta gli avversari già dribblati per superarli ancora per puro divertimento. Eccede.
Come quando in finale di Coppa Campioni nel 1968, sempre contro il Benfica, sul risultato di parità, dopo aver scartato mezza squadra e pure il portiere vorrebbe quasi fermarsi sulla linea di porta, mettersi a quattro zampe e buttarla dentro di testa. Non lo fa, racconta poi, solo per rispetto nei confronti del vecchio Busby. Quell’anno oltre alla Coppa dei Campioni vince anche il Pallone d’Oro. Alla fine il suo palmares oltre alla Coppa Campioni conta due campionati, una FA Cup, due Charity Shield e un paio di titoli di capocannoniere. Per quegli anni è tantissimo. Poi inizia il declino, suo e del Manchester United, che abbandona a soli 28 anni: quando il calciatore medio raggiunge l’apice della carriera, lui ha già smesso. Da allora gira il mondo, Sudafrica, Londra, gli Stati Uniti, la Scozia, Hong Kong, gioca a calcio come lo farebbe un pensionato e si diverte come sa fare solo un trentenne nato nella miseria e che improvvisamente può tutto. E sono ancora donne, alcol, macchine e vestiti.
E qui si torna al contrasto tra le due fotografie iniziali. Già nella sua pur breve carriera di calciatore, George Best diventa imprenditore di se stesso, capisce che il calciatore nell’immaginario collettivo è il nuovo divo di Hollywood, e dalla sua immagine può guadagnare quanto dal suo privilegiato lavoro di calciatore. Sponsorizza qualsiasi prodotto gli sia offerto, compra e vende macchine, bar, locali, crea il brand George Best trent’anni prima che faccia scalpore il brand David Beckham. Il suo marchio lo sfruttano, ovviamente, anche gli altri. Ancora oggi, scrive il Belfast Telegraph, George Best è al dodicesimo posto tra i cinquanta marchi con maggior valore dell’Irlanda del Nord. Ma a fare impressione è che anche quell’ultima fotografia prima di morire, il corpo devastato e l’urlo lancinante “non fate come me”, non è altro che l’ultima “esclusiva” della sua immagine che lui stesso vende a caro prezzo al tabloid che offre di più. Come i suoi coetanei che avevano creduto di avere portato l’immaginazione al potere, anche George Best si ritrova sconfitto: quel desiderio che credevano innocente era già stato sussunto nella merce.