Tra le categorie merceologiche dei beni alimentari, l’olio extravergine di oliva è senza dubbio una di quelle più indifferenziate, in cui il consumatore ha maggiori difficoltà a orientarsi. La produzione viene effettuata da realtà molto diverse (dai piccoli olivicoltori fino alle grandi multinazionali presenti sui principali mercati mondiali) che operano secondo processi di filiera differenti. L’olivicoltore che, dopo aver coltivato i propri oliveti, raccoglie le olive, le trasporta al frantoio entro poche ore per ottenere l’olio, che poi stoccherà e confezionerà prima di vendere direttamente, ha ben poco in comune con l’industria che compra le olive (oppure direttamente l’olio) in diversi Paesi dopo che queste sono state ammassate per giorni e hanno viaggiato stivate nelle navi per essere molite in stabilimenti industriali.
Processi produttivi così distanti danno luogo a prodotti qualitativamente molto diversi fra loro ma, come si è detto, vengono commercializzati con quell’unica denominazione di “olio extravergine di oliva”. A questo bisogna aggiungere che la normativa volta a disciplinare l’etichettatura “blinda” le indicazioni obbligatorie e consente pochi margini di manovra per le informazioni facoltative. Per fare un esempio, l’olivicoltore che opera fuori dalle aree a Denominazione di Origine Protetta non può indicare in etichetta il Comune (o il comprensorio) di provenienza delle olive utilizzate per la produzione.
In tale contesto è evidente che, al momento della spesa, il prezzo diventi uno dei principali criteri di scelta (talvolta l’esclusivo) della maggior parte dei consumatori. Da qui nasce la tendenza, soprattutto per le industrie olearie che costruiscono i propri profitti sui grandi numeri, ad abbassare il prezzo quanto più possibile. E proprio questa tendenza, nelle scorse settimane, su denuncia dell’Agenzia delle Dogane, ha fatto scattare un’inchiesta relativa a un presunto cartello per tenere bassi i prezzi.
Al di là dell’anomalia di un cartello per abbassare i prezzi anziché alzarli, è evidente che non è possibile, e non solo nell’agroalimentare, ridurre il prezzo sotto una ragionevole soglia senza sacrificare nulla alla qualità delle produzioni, al rispetto per l’ambiente e ai diritti dei lavoratori. I costi di produzione di un extravergine, quando siano rispettati tutti i parametri della qualità in tutte le fasi della filiera produttiva, dall’oliveto al frantoio, non si attestano mai sotto i 4,5-5 euro al litro. E poi c’è la bottiglia, il tappo, l’etichetta, il trasporto e il margine per la commercializzazione. Eppure sugli scaffali si vedono extravergini a prezzi ben al di sotto di questa soglia e allora sorge spontaneo il sospetto che siano stati riclassificati in modo fraudolento per poter rientrare nella categoria di maggior pregio.
Questo sistema oggi produce dei paradossi per cui le difficoltà commerciali maggiori vengono incontrate soprattutto da chi è più attento alla qualità e alla tutela del paesaggio. La presenza di ulivi secolari, per esempio, conferisce un notevole pregio paesaggistico ad alcune aree turistiche di cui si avvantaggia l’intera collettività ma comporta costi di potatura e di raccolta più elevati solo per i produttori.
La politica dei prezzi bassi nell’agroalimentare spesso è giustificata dalla necessità di consentire un risparmio a chi fa la spesa in un momento di crisi economica. Una giustificazione che va, senza dubbio, rispedita al mittente. Innanzitutto perché il risparmio è veramente tale quando si spende meno scegliendo fra prodotti confrontabili tra loro e non quando si sta acquistando un prodotto che vale palesemente di meno; poi perché per un prodotto con le caratteristiche dell’olio extravergine, ciò che si risparmia in termini di esborso monetario verrà pagato con gli interessi in termini di qualità, salubrità e sostenibilità ambientale.