La compagnia danese Apm Maersk ha ceduto la propria partecipazione nel terminal container di Gioia Tauro, mentre la multinazionale di Hong Kong Hutchison Whampoa e l'armatore taiwanese Evergreen hanno restituito la concessione all'Autorità portuale di Taranto. Renzi e Delrio avevano promesso di snellire le procedure ma nulla è cambiato
Mentre il governo cincischia sui porti, i grandi operatori stranieri esprimono la loro insoddisfazione nel modo più eloquente e diretto: se ne vanno dalle banchine italiane. A Gioia Tauro la compagnia danese Apm Maersk ha ceduto la propria partecipazione nel locale terminal container ai due soci, Contship e Msc. Lasciando a loro la triste eredità di un traffico crollato del 16% e delle centinaia di portuali in cassa integrazione. A Taranto, invece, di container non ne arriva più manco mezzo da quando la multinazionale di Hong Kong Hutchison Whampoa e l’armatore taiwanese Evergreen hanno restituito la concessione all’Autorità portuale locale. A Napoli il duo sino-svizzero Cosco-Msc ancora non è scappato, ma soffre per il traffico che ristagna da anni anche per effetto del commissariamento deciso tre anni fa dell’Autorità portuale partenopea.
Per un operatore straniero è difficile adattarsi alla farraginosità delle regole e alle inefficienze che imperversano sulle banchine italiane e che il governo non riesce a modificare. Matteo Renzi e il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Graziano Delrio avevano promesso lo snellimento delle procedure per le operazioni di import ed export, ma la realtà resta desolante. Nei porti italiani ci vogliono quasi 20 giorni (18 e mezzo per la precisione) per completare le operazioni di carico o di scarico. Dieci giorni e mezzo se ne vanno per il disbrigo della documentazione, altri 2 giorni per i controlli doganali e 6 giorni per la movimentazione e il trasporto veri e propri. In Olanda bastano 6 giorni e mezzo in totale, tre volte meno che in Italia. In Germania ci vogliono 8,2 giorni, in Belgio 8,5, in Spagna 9,5.
Il taglio delle Autorità portuali annunciato dal governo doveva essere la premessa per impedire la proliferazione di progetti faraonici spesso maldestramente scollegati dal contesto e in diretta e improduttiva concorrenza con gli altri scali nazionali. Ma la riforma delle Autorità che da più di 20 anni gestiscono in modo autarchico le banchine è rimasta solo un’intenzione: ognuno continua ad andare per conto suo. Esemplare il caso dell’Alto Adriatico. Il Friuli guidato dal vicesegretario del Pd Deborah Serracchiani ha avviato l’iter di approvazione del nuovo piano regolatore del porto di Monfalcone imperniato sul terminal container. Ignorando del tutto che a pochi chilometri di distanza, a Trieste, progettano di accrescere proprio la capacità di movimentazione del terminal locale da 700mila a 1 milione e 200mila Teu, la misura standard di volume nel trasporto dei container. Mentre a Venezia hanno in testa la costruzione di una innovativa e costosa piattaforma offshore.
Oltre che vice segretario di Renzi, la Serracchiani è anche responsabile per il partito del settore dei Trasporti, ma sembra tenere in poco conto gli orientamenti del governo. Mentre un altro esponente Pd, Riccardo Nencini, vice di Delrio, parla a sua volta un’altra lingua e magnifica il ruolo centrale di Venezia nell’ambito delle strategie governative sulla portualità italiana dell’Alto Adriatico.
ha collaborato Andrea Moizo