L’ansia è un’emozione positiva. Normalmente ha il ruolo di richiamare l’attenzione, di mettere in guarda da certe situazioni di pericolo, di orientare verso azioni necessarie per la sopravvivenza. E’ presente nell’uomo sin dall’alba della sua esistenza come campanello d’allarme in un ambiente carico di minacce. Ci sono paure e ansie che consideriamo ragionevoli, come quelle in reazione agli eventi di Parigi, e altre invece che riteniamo “sbagliate“.
Si tende a considerare patologica l’ansia che prosegue anche dopo la fine di eventi pericolosi, perché mantiene in uno stato permanente di tensione che compromette le capacità operative e di giudizio.
In realtà che la minaccia sia reale o presunta, immaginata o anticipata è comunque in relazione ad una qualche forma di pericolo che la persona percepisce e come tale va sempre presa in considerazione.
I fatti di Parigi sono “passati” ma per la loro caratteristica di imprevedibilità, aggressività, disumanità, hanno stimolato in tutti noi sentimenti di terrore, non controllo, fragilità e vulnerabilità – che si esprimono attraverso la percezione del rischio in ogni angolo, la diffidenza, il blocco esplorativo, la chiusura – che dureranno molto tempo, perlomeno fino a che non saremo riusciti a ricostruire un significato coerente che dia ai fatti un senso di minore imprevedibilità (se ci si riesce) e non ci saremo ricollocati in una posizione di maggiore controllo rispetto a quello che ci possiamo aspettare dall’esterno.
Ognuno ha un suo modo per elaborare gli eventi a qualcuno riuscirà a farlo più velocemente di altri. A volte il pericolo esterno si combina con il senso di incapacità a fronteggiare il rischio più interno di emergenza emotiva.
Situazioni di instabilità relazionale e/o lavorativa, legami conflittuali, possono aumentare la suscettibilità all’ansia poiché l’individuo percepisce meno la protettività dei suoi riferimenti e si sente più fragile e vulnerabile. L’imprevedibilità di certi avvenimenti minacciosi ha allora l’effetto di potenziare e amplificare certe naturali predisposizioni personali offrendo una prova di quanto i pericoli siano esterni.
L’ansia ha, quindi, una funzione protettiva e preventiva, diventa disfunzionale quando ha più un effetto paralizzante, se non si è capaci di gestirla se si rimane impantanati in ruminazioni cortocircuitanti – a volte le ruminazioni sono legate all’incapacità di focalizzare e dare un nome a un’emozione – e l’organismo permane in uno stato di, apparentemente inutile, iperattivazione.
Un’ansia è più difficile da gestire quando non si riesce a ricostruirne il significato, quando viene vista solo come un problema e non si è in grado di contestualizzarla, cioè di creare un legame tra fatti contingenti ed attivazione ansiosa.
Quando le persone sono particolarmente incapaci di dare significato all’ansia perché storicamente non abituati a coglierla come emozione questa si manifesta soprattutto nei suoi aspetti più somatici: palpitazioni, tachicardia, dolori al petto, senso di soffocamento, nausea, vertigini, paura di impazzire, paura di morire, ecc…manifestazioni che si prestano ad una lettura estranea dell’ansia che in quanto “corpo estraneo” deve essere eliminato prima possibile.
La sintomatologia organica assomiglia alle prime fasi di un infarto e spesso è accompagnata da un senso di pericolo o di catastrofe imminente, sensazioni che spingono di più verso una gestione farmacologica che psicologica del problema.
I farmaci riducono temporaneamente l’ansia ma non cambiano il modello di apprendimento ed elaborazione che ne è alla base e che perpetua le sue manifestazioni meno funzionali.
Se in una persona per esempio l’ansia è l’espressione della sofferenza per le eccessive pressioni percepite nell’ambiente lavorativo e/o familiare, una soluzione che la elimina, chimica o magica che sia, la metterebbe paradossalmente più a rischio di collasso perché permarrebbe in situazioni che la stressano senza più neanche la “spia luminosa” a metterla in guardia.
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Posted by Ordine degli Psicologi del Lazio on Mercoledì 25 novembre 2015