“C’è un clima internazionale di grande confusione attualmente. E questo rende estremamente difficile il coordinamento dei servizi segreti. Se questi ultimi in Francia sembrano essere rimasti spiazzati dalle stragi di Parigi è anche perché non si parlano e ciascuno viaggia per contro proprio”. Sono le parole del magistrato Gian Carlo Caselli durante la trasmissione Omnibus, su La7. L’ex capo della Procura di Palermo, autore del libro autobiografico “Nient’altro che la verità” sulla sua storia umana e professionale, prende spunto da un articolo di Giovanni Bianconi pubblicato sul Corriere della Sera, “Il manuale dei jihadisti in Italia”, per analizzare differenze e tratti in comune tra il terrorismo degli anni di piombo e quello fondamentalista islamico. “Il metodo adottato è lo stesso” – osserva Caselli – “Tra gli aspetti simili, c’è l’esistenza di una struttura di comando, di una cellula di ricognizione, di una cellula necessaria al rifornimento di armi, di una cellula deputata all’azione e agli attentati. Rispetto alle Brigate Rosse c’è una nuova cellula, quella che deve filmare l’azione per la propaganda. Ma le differenze tra il terrorismo degli anni ‘70, che era indigeno, e quello attuale, che è internazionale, sono notevoli. Il nostro terrorismo indigeno” – continua – “ colpiva obiettivi selezionati, quello jihadista spara nel mucchio e, in questo senso, al massimo potrebbe essere assimilato al nostro stragismo nero. Un altro dettaglio in comune è la violenza feroce. Alcune esperienze però possono essere utili anche oggi”. Il magistrato spiega la ‘filosofia’ stragista delle BR, tesa a realizzare la ‘palingenesi rivoluzionaria’: “Il loro assunto, però, si è rivelato privo di contenuti. Lo Stato italiano, pur nelle tante difficoltà, è riuscito a sconfiggere il terrorismo nel rispetto sostanziale delle regole, a differenza di altri Paesi che non hanno avuto tutto questo terrorismo per 15 anni con tutti quei morti. Hanno avuto molto meno come offensiva e minaccia, ma hanno creato procure speciali, tribunali speciali, come, ad esempio, la Francia e la Germania. Noi no: non siamo caduti nella trappola di imbarbarire il nostro sistema”. E ribadisce: “Da quegli anni c’è un insegnamento da trarre: la sicurezza, che è un valore imprescindibile e indiscutibile, deve avvenire nel rispetto delle regole. Ovviamente è facile a dirsi, più difficile a realizzarsi. Ma la verità sta in questo: senza diritti non c’è giustizia e senza giustizia non c’è pace. Alla disperazione che genera rabbia bisogna rispondere anche cercando la sicurezza, ma non soltanto con risposte di carattere militare. Sono necessarie” – prosegue – “anche risposte diverse, che siano attente ai problemi di salute, di lavoro, di assistenza, altrimenti si innesta un cortocircuito e un circolo vizioso che produce sempre nuova esasperazione, nuova rabbia, nuova violenza. E finisce che, anziché risolvere tutti questi problemi, andiamo tutti a sbatterci contro”