Dagli ultimi dieci anni l’attenzione verso le culture indigene in Brasile è in costante incremento. Le etnie sono centinaia, anche se fanno capo a poche decine di ceppi principali. Due tronchi linguistici, con diverse famiglie. Alcune famiglie linguistiche non facenti capo a questi due tronchi e una miriade di popoli per un totale di 896.917 individui (fonte: Funai – Fondo nazionale indigeno, Governo Federale – 2010), meno dello 0,5% della popolazione totale. Dislocati per lo più nelle aree rurali indigene. A questo si va ad aggiungere un esiguo numero, ovviamente imprecisato, di tribù incontattate. Nel complesso un numero relativamente basso, ma importante per diverse ragioni. La popolazione iniziale del 1500, prima dell’invasione europea, viene stimato oggi da etnografi e demografi in circa tre milioni di individui.
Mentre da una parte in alcune aree sono perseguitati dai latifondisti, allevatori e agricoltori, spesso spalleggiati dalle polizie, dall’altra sono protetti dal Funai e quindi seguiti dal governo federale. La situazione è complessa e sta rapidamente evolvendo e lentamente peggiorando, per diverse ragioni.
Il primo problema pratico è la distruzione della foresta, alla quale ovviamente gli indios si oppongono e che crea la situazione di scontro violento con i latifondisti. Scontri che talvolta sfociano anche nella morte di attivisti indigeni, come già segnalato su questo blog. La distruzione della foresta non è solo dovuta a questo, ma anche al peggiorare della situazione climatica e ambientale generale, che sta creando secche e disequilibri di varia natura. Un danno culturale e ambientale per tutti, ma per gli indios una vera e propria minaccia alla sopravvivenza poiché sono in seria diminuzione le specie vegetali e animali per essi fonte di sostentamento grazie alla caccia e la raccolta.
Questo il panorama, ma esiste anche un’altra serissima faccia della medaglia. Ovvero l’attenzione sia di alcune branche delle istituzioni, sia di gruppi di studio, editori, antropologi, operatori sociali e culturali, etno-botanici, farmacologi. Questo sta avvenendo poiché, al di là delle oggettive difficoltà e dell’ormai secolare contaminazione culturale, molti indios hanno mantenuto fortemente tradizioni e sapienze antichissime, mentre altri si stanno riavvicinando ad esse. Insieme a questi ultimi, come già accennato, numerosi gruppi e studiosi, interessati a due aspetti in particolare: la conoscenza di erbe e piante e la visione del mondo, molto peculiare e con una connotazione fortemente spirituale. Spiritualità che si manifesta non solo sul piano teorico, ma proprio nel modo di vivere la quotidianità, nella quale niente è banalizzato e tutto assume una dimensione sacra e significativa.
Nonostante si tratti in fondo di una sparuta minoranza, la sensazione di molti è che siano portatori di una grande forza, e di una conoscenza antica che, specie nel momento storico terribile che stiamo vivendo in Occidente, potrebbe essere molto utile per il futuro dell’umanità. In particolare quello che essi sembrano conoscere e vivere molto bene sono in fin dei conti relazioni: tra esseri umani, con l’ambiente e con l’infinito.
La gente comune, più o meno studiosa e preparata che sia, condivide queste sensazioni con numerosi grandi ricercatori. Tra questi, tanto per fare un esempio, Richard Evans Schultes e Albert Hofmann. Il primo deceduto nel 2001 e il secondo nel 2008. Il primo fu professore di etno-botanica a Harvard. Hofmann scopritore dell’Lsd, membro del Comitato per il Nobel, socio dell’Accademia mondiale delle Scienze, membro della Società Internazionale sulla Ricerca delle Piante e della Società Americana di Farmaceutica. Insieme pubblicarono il volume “Botanica e chimica degli allucinogeni” nel 1983, nel quale integrarono le informazioni interdisciplinari a livello internazionale sugli alcaloidi psicoattivi, dalle culture primitive ai tempi moderni.
Già, gli allucinogeni. Vi sono soltanto 120 specie di allucinogeni per circa 600.000 specie di piante, con una inspiegabile concentrazione nel Nuovo Mondo, e in entrambi gli emisferi molte piante allucinogene non sono mai state usate come narcotici. Infatti gli indios le usano come piante sacre e se ne servono per quello che loro chiamano “cammino incantato” o “volo magico”.
Non è certo l’unico modo in cui gli indios usano le piante, le quali servono loro per nutrirsi, decorarsi, fare arte, produrre oggetti, vestirsi, ringraziare l’universo e la natura stessa. E qui arriviamo a quello che forse è l’aspetto più profondo e interessante della loro natura, la capacità di vedere il mondo come un’opera d’arte divina e armonica. Appunto un “giardino incantato”.
Tra quelli che sono interessati ad approfondire questa visione si trovano artisti, ricercatori, scrittori ed editori. Tra questi ultimi Anna Dantes, di Rio de Janeiro, la quale è riuscita con il suo staff a reperire i fondi per realizzare un libro straordinario: “Una Isi Kayawa”, il Libro della Cura, nel quale per la prima volta nella storia sono elencate, insieme a racconti mitologici e cosmogonici, centinaia di erbe e piante utili per curare diverse patologie. Il volume, che presenta la farmacopea degli Huni Kuin, popolo di forti tradizioni dell’Acre (Amazzonia meridionale al confine con il Perù), è stato realizzato con il Patrocinio del Governo Federale brasiliano e in collaborazione con diverse università del Paese e ricercatori del Giardino Botanico di Rio, uno dei più prestigiosi al mondo. Il progetto ha vinto pochi giorni fa il terzo posto del prestigioso premio “Jabuti”, per la Scienza della Natura e dell’Ambiente e per la Matematica, conferito dalla Câmara Brasileira do Livro.
E’ in fase di lavorazione un secondo volume, coinvolgendo ancora una volta, insieme al popolo Huni Kuin, etnobotanici, scienziati, ricercatori, grafici designer, fotografi, cineasti e grandi artisti brasiliani del calibro Ernesto Neto (di cui avrò modo di parlare a breve). Avevo già illustrato questo tema in questi spazi, ma l’ho fatto ancora e intenderei fornire in futuro ulteriori approfondimenti, poiché ritengo che fermarsi un attimo e guardarsi indietro, con l’aiuto di pochi sopravvissuti, possa essere di utilità enorme, se non per superare, per lo meno offrire un valido contributo nell’affrontare il difficilissimo momento storico in cui ci troviamo.