Ogni tentativo di semplificare il maltrattamento domestico non fa altro che rinforzarlo. L’aggettivo domestico, appartenente alla casa, in parte inganna, in quanto la violenza è presente in ogni singolo, individuo, famiglia, comunità, società. Non è prendendone le distanze che contrasteremo il fenomeno, ma solo avvinandovisi. Siamo noi a doverci addomesticare, non l’aggressività che tale è e tale rimane, ineluttabile forse, ma non per questo non incanalabile in comportamenti diversi e non lesivi della dignità e della fisicità dell’altro.
La difficoltà è far capire alla gente comune il senso di quanto vado scrivendo e sostenendo. I “non addetti ai lavori” replicano che la violenza sulle donne è una gran brutta cosa e la condannano, ma, nello stesso tempo, se ne chiamano fuori; non è raro che qualcuno cominci ad opporsi con una certa veemenza mistificando e distorcendo anche il senso alle parole. Ci si sente attaccati in quello che non si vuole riconoscere, anche quando l’altro lo pone semplicemente all’attenzione come elemento di discussione.
Ad esempio, sembra che parlare della violenza degli uomini significhi disconoscere la violenza delle donne, quando questo non è mai stato voluto intendere. Eppure, ancora troppe volte, quando parlo di violenza sulle donne, in tanti mi rimproverano di non occuparmi di quella delle donne. Sono convinto che siano due fenomeni reali con caratteristiche numeriche, sociali e culturali diverse, così come sono convinto che entrambe necessitino di adeguati studi e ricerche. L’aggressività fa parte della natura umana non è prerogativa dell’uno o dell’altro sesso.
Io mi occupo principalmente di violenza degli uomini e di stereotipi maschili ed è di questo che posso parlare, della mia esperienza professionale e personale. Far avvicinare le persone al maltrattamento domestico fa parte del lavoro delle tante operatrici e ormai dei tanti operatori che quotidianamente si confrontano con le conseguenze psicologiche e fisiche di quest’ultimo e il lavoro di sensibilizzazione non è certo meno importante del lavoro più clinico e di supporto alle vittime e agli autori. E’ sicuramente, oserei dire, più difficile in quanto, se è vero che comportamenti provocatori e aggressivi sono ricorrenti è pur vero che meno è riuscire ad ammetterlo. Pensiamo che non sia normale quel che comunque risulta essere quotidiano. La normalità però non è altro che un semplice dato statistico, quello che fa la maggior parte delle persone. Siamo persone comuni con emozioni comuni, rendersene conto è fuori dal comune.
Daltronde fosse semplice parlare di violenza questa diminuirebbe, parlarne implicherebbe riconoscerla, riconoscerla implicherebbe aprirsi alle proprie fragilità, a tutte le volte che, con la forza, cerchiamo di nasconderle a noi e agli altri. Il genitore che non sa comunicare la sua paura e la sua rabbia, sentimenti umani e comprensibili nella cura dei figli, può utilizzare schiaffi, sculaccioni e minacce e si deve dire e si deve convincere che va bene così, il figlio non rifarà più gli stessi sbagli, probabilmente però cercherà semplicemente di non farlo più arrabbiare per non prendere le botte o le sgridate. Il pericolo a lungo termine non è l’azione che ha scatenato la paura del genitore, il bambino fa il bambino e rimane compito dell’adulto educarlo e dargli un limite, ma la rabbia che il genitore ha agito verso di lui (ha agito, non che ha provato) e gli effetti che questa avrà nella sua crescita .
C’è ancora tanto da fare e da riflettere. La Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne è appena passata. Riporre queste riflessioni è uno dei miei modi per prendervi parte.