La tragicommedia del governo sulla necessità di abolire l’orario di lavoro perché obsoleto nasconde una inquietante realtà: lo scardinamento dei principi fondanti delle tutele del lavoro in nome di uno sfrenato liberismo capitalistico. Dovremmo immaginare – sostiene il ministro Poletti – contratti che non abbiano come unico riferimento l’ora-lavoro che – prosegue – a fronte dei cambiamenti tecnologici è un attrezzo vecchio.
Vede, caro ministro, i rapporti di lavoro dove il tempo non è il parametro principale per valutare, e dunque retribuire, la prestazione di lavoro esistono già. Sono i contratti di lavoro autonomo o parasubordinato. Per questi conta il risultato, o così dovrebbe essere, visto che una delle più grandi piaghe del lavoro in Italia è stata, guarda caso, l’utilizzo abusivo delle collaborazioni autonome che mascherano lavori subordinati sottopagati, proprio in nome di quel risultato che i lavoratori avrebbero dovuto raggiungere, mentre in realtà al datore di lavoro interessa assumerli con meno tutele pur continuando ad avere a disposizione il loro “tempo”.
Il contratto più rappresentativo di questo fenomeno di sfruttamento mascherato dietro una finta autonomia e libertà di organizzazione temporale del lavoro è stato certamente quello “a progetto” (di recente abrogato). Una forma contrattuale che ruota attorno alla realizzazione di un progetto e che considera il vincolo temporale soltanto un mezzo per coordinare l’attività del lavoratore con quella di colui che la riceve, ossia il committente. L’introduzione del progetto rispetto alle precedenti co.co.co. è stata realizzata per rendere più difficile l’uso improprio delle collaborazioni autonome, visto che hanno tutele inferiori rispetto ai subordinati.
Basti solo pensare al settore dei call center, dove i contratti di collaborazione autonoma – con o senza progetto – hanno permesso di sottopagare e sfruttare migliaia e migliaia di lavoratori, costretti eccome a rispettare l’orario di lavoro e ad essere sottoposti a rigidi controlli proprio grazie alla tecnologia!
Tutto dipende chiaramente dal tipo di lavoro. In lavori strandardizzati e ripetitivi come quelli degli operatori telefonici o di back office, oppure ancora degli operai nelle fabbriche, delle segretarie negli uffici e così via, gli strumenti tecnologici non possono far altro che amplificare l’importanza ed i vincoli scaturenti dal tempo di lavoro. Mentre per i lavori tipicamente professionali è il risultato che conta, perché sono veramente autonomi (o giù di lì), per i lavori eterodiretti, è normale che la retribuzione sia oraria.
Non ci stiamo inventando nulla, insomma.
A questo punto bisogna chiedersi se le parole del ministro sono una “leggerezza”, che chiaramente non può certo permettersi un ministro della Repubblica.
Oppure c’è dell’altro, e cioè l’obiettivo di declassare l’orario di lavoro come parametro di riferimento essenziale per le retribuzioni dei lavoratori dipendenti, nonostante sia ovvio che il tempo resti comunque un elemento centrale del potere direttivo e dispositivo del datore di lavoro. Agganciare sempre più i trattamenti economici dei lavoratori a elementi variabili come ipotetici “risultati” in lavori dipendenti (lavoro a cottimo), significa semplicemente aumentare i margini di discrezionalità degli imprenditori nel definire la parte essenziale della retribuzione (gli accordi sulla produttività infatti esistono già) pur mantenendo il potere di decidere “come e quando”.
Questa tendenza si è apertamente manifestata in occasione dell’abolizione del contratto a progetto, di recente sostituito dalla “prestazione di lavoro esclusivamente personale, continuativa e con modalità di esecuzione organizzate dal committente“. Un’ambiguità terminologica che pare avere un preciso obiettivo, in barba ai precedenti tentativi in senso contrario: rendere sempre meno decisivo il parametro dell’eterodirezione come criterio discriminante per l’applicazione delle tutele.