Immaginate se a freddo, per un articolo scritto mesi prima, il direttore del Fatto Quotidiano venisse arrestato e accusato di gravi reati. E quello che è successo giovedì a Can Dündar, caporedattore del quotidiano turco Cumhuriyet, arrestato insieme al responsabile della redazione di Ankara Erdem Gül. Sono accusati di spionaggio, divulgazione di segreti di Stato, di essere membri di un’organizzazione terroristica e di aver violato la sicurezza di Stato attraverso la divulgazione di materiale segreto. Accuse che possono portare a una condanna all’ergastolo. Ciò a causa di un articolo pubblicato lo scorso mese di maggio, su presunte forniture di armi ai ribelli siriani da parte dell’Organizzazione dell’Intelligence Nazionale Turca, che confermano l’ambiguità quando non la connivenza della Turchia o di parti importanti di quello che da quelle parti si chiama lo “Stato profondo” con l’Is. Il loro giornale aveva fornito prove fotografiche e video a sostegno dell’articolo. Ieri Erdogan ha affermato che quello che veniva denunciato da Cumhuriyet era totalmente indifferente rispetto alla gravità del fatto di avere divulgato materiale non pubblico.
Già questa dichiarazione la dice molto lunga sulla concezione del Presidente turco del ruolo della stampa. Se un giudice dovesse confermare la richiesta del procuratore, arriverebbe un gravissimo segnale sulla libertà di stampa in Turchia. Solo pochi giorni fa a Strasburgo Can Dündar ha ricevuto per il suo impegno il premio 2015 per la libertà di stampa istituito da Reporters Sans Frontières. E gli Usa si sono affrettati ad esprimere preoccupazione per l’arresto dei due giornalisti. Ho incontrato Can Dündar ad Istanbul solo un mese fa. Temeva l’arresto nel caso in cui Erdogan avesse vinto le elezioni, ed è andata esattamente così.
Stamattina, poi la notizia terribile dell’uccisione di Tahir Elci, il conosciutissimo capo degli avvocati curdi, che era stato arrestato e poi rilasciato qualche settimana fa, riporta al centro dell’attenzione l’estrema instabilità e violenza nella regione curda del paese, e la responsabilità del governo nella grave escalation del conflitto dopo due anni di processo di pace che parevano avviato a una soluzione positiva solo pochissimi mesi fa.
Questo è il contesto nel quale domenica ci sarà il vertice Eu Turchia, convocato da Tusk in gran pompa e che vedrà la presenza dei 28 leader europei. Che la Turchia di Erdogan si permetta un atto simile a due giorni dal summit significa che è sicuro che gli europei, paralizzati dalla paura di un conflitto con Erdogan sui rifugiati, non diranno nulla. Ieri la portavoce della Commissione ha speso qualche penosa e goffissima parola sull’episodio, dicendo che non si poteva sapere che cosa si sarebbe discusso al summit. Alla riunione preparatoria dei ministri avvenuta ieri, forse qualche mezza parola sarà stata spesa, ma siamo sicuri che a Erdogan verranno stesi tappeti rossi domani a Bruxelles.
Totale indifferenza, insomma, su questo come su altri gravi e continui episodi di repressione a volte violenta, che hanno preceduto e seguito le elezioni, vinte da Erdogan, anche grazie a una campagna elettorale che ha di fatto silenziato ogni altra voce, ha prosciugato i fondi per la campagna elettorale dell’Hdp oltre a sottomettere i suoi leader a una pressione violenta e a reali rischi per la loro incolumità; e grazie anche a irregolarità durante il voto denunciate dalla di solito prudentissima missione Ocse.
Questa acquiescenza della Ue di fronte a questi atti che mirano a fiaccare e silenziare la vivace società civile turca e a fomentare la violenza e quindi la repressione, è indice di un atteggiamento miope e cinico e denota una spiacevole coazione a ripetere sempre gli stessi errori. E’ peraltro un atteggiamento pienamente sostenuto dal governo Renzi, che invece sulla ripresa dell’azione militare dimostra un sano scetticismo.
Insomma, torna in forza l’idea che i diritti umani e il sostegno a coloro che si battono per la democrazia sia molto meno efficace che sostenere coloro i quali appaiono più forti ed attrezzati a battere il nemico del momento. E’ stato così per Hamas, sostenuto da Israele contro Al-Fatah. Per i talebani, sostenuti anche dagli Usa; è stato così per l’Egitto di Mubarak ed è così per quello del Generale Al Sisi. Gli oppositori pacifici di Assad sono stati lasciati soli durante i lunghi mesi dei moti iniziali, mentre è ormai chiaro che soldi e armi occidentali sono andati a ribelli non esattamente democratici. È così ancora oggi per l’Arabia Saudita, che, nonostante tagli teste, finanzi da decenni predicatori estremisti nei nostri paesi e abbia connivenze certe con Is, continua ad essere considerata un alleato strategico per l’Occidente. E che dire della Russia di Putin, che ha sulla coscienza migliaia di morti, dai tempi degli orribili massacri in Cecenia fino al conflitto siriano? Tutto questo, coniugato con il revival di un’altra delle illusioni di questi ultimi dieci anni, quello dell’intervento militare veloce e indolore, come se per battere quelli che ammazzano giovani innocenti in un bar e vengono dalle periferie delle capitali europee sia sufficiente sganciare qualche bomba.
Non credo che ci siano soluzioni semplici, né che non sia necessaria una certa dose di RealPolitik quando pare che tutte le strade intraprese siano fallite. Non credo neppure che sarebbe giusto dimenticare che la Turchia ospita oggi oltre 2,2 milioni di siriani e migliaia di altri fuggitivi in condizioni difficili, ma tutto sommato di apertura e condivisione con una società civile ben più disposta all’accoglienza che la nostra. E’ evidente che la si deve sostenere ad organizzare l’accoglienza, anche perché molti dei profughi rimarrebbero in Turchia se la prospettiva non fosse quella di languire in campi profughi in attesa della fine improbabile di un conflitto che è già durato più della Seconda guerra mondiale.
Ma sono profondamente convinta che illudersi che una Turchia autoritaria e sempre più islamizzata possa contribuire positivamente alla pace in Siria e alla stabilizzazione della regione sia un grave errore. E inondarla di soldi europei senza condizioni, e senza curarsi del fatto che alcuni progressi importanti sulla strada della democratizzazione ed apertura della società turca siano oggi in pericolo sarebbe una ulteriore dimostrazione della mancanza di lucidità e coerenza degli europei, ancora più preoccupante nel contesto attuale di una ripresa del rullo di tamburi di guerra.
Ma d’altronde, come sottolinea con una certa perfidia l’ambasciatore turco a Bruxelles, anche al suo interno l’Ue sembra molto meno rigorosa su stato di diritto e democrazia. Una deriva, questa, che, lungi da rendere più efficace la battaglia contro terrorismo e radicalizzazione, ci priva della nostra maggiore forza di attrazione e di prestigio internazionale: la fedeltà ai valori di libertà e democrazia, lo smantellamento di frontiere e divisioni fra i nostri popoli e la capacità di condividere benessere economico e sociale.