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‘Ndrangheta: 25 anni di carcere alla moglie, 18 al marito. Aurora Spanò e il terrore mafioso tra pizzo e pestaggi

Pesante condanna del Tribunale di Palmi alla 58enne ritenuta il vero boss del clan che dettava legge a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. Secondo l'accusa, imponeva personalmente le tangenti ai commercianti, banchettava gratis nel ristorante aperto in un bene confiscato alla famiglia, malmenava le compagne di cella. Un suo racconto in una raccolta della Mondadori. La conferma del "matriarcato mafioso" in Calabria

di Lucio Musolino

Mente e coordinatrice della cosca Bellocco a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. La moglie è stata condannata a una pena superiore a quella del marito, ritenuto il boss del piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria. Lo ha stabilito il Tribunale di Palmi che, al termine di una lunga camera di consiglio, ha inflitto 25 anni di carcere ad Aurora Spanò e 18 anni al marito Giulio Bellocco.
La sentenza del processo “Tramonto” ha registrato la condanna a 3 anni e 6 mesi anche di Giuseppe Stucci e Giuseppe Spanò, rispettivamente il comandante e l’agente della polizia municipale che avrebbero favorito i Bellocco falsificando alcuni atti amministrativi relativi a un esercizio commerciale intestato a una prestanome della cosca.

La ‘ndrangheta è femmina e a San Ferdinando porta un nome ben preciso: Aurora. Per anni boss e per 7 mesi latitante. Oggi, a 58 anni, detenuta al 41 bis. Era lei che, secondo la Direzione distrettuale antimafia, teneva le redini della famiglia mafiosa, costola dell’omonima ‘ndrina che detta legge nella vicina Rosarno. Era lei che imponeva il pizzo e vessava i negozianti costretti a pagare la mazzetta per non subire ritorsioni, che entrava nei ristoranti, banchettava per migliaia di euro e non pagava solo perché l’esercizio commerciale era in un edificio che le era stato confiscato. Era lei che dopo aver prestato a strozzo 600mila euro a due imprenditori della zona si è impossessata di uno stabile di proprietà della famiglia dei creditori, nel frattempo scappati al Nord Italia dove, anche lì, sono stati raggiunti e massacrati di botte. Era lei che, una volta arrestata, minacciava e malmenava le detenute con cui divideva la cella costringendole a rifarle il letto e pulire i servizi igienici.  “Io sono Bellocco anche se non sono sposata!”, era il leit-motiv di Aurora Spanò, intercettata dai carabinieri durante un colloquio dietro le sbarre.

La testimone Maria Concetta Cacciola: “San Ferdinando era dei Bellocco”.
Della capocosca di San Ferdinando ha riferito anche la testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, morta per aver ingerito acido qualche anno fa dopo che i suoi familiari l’avevano costretta ad abbandonare la località protetta e a ritrattare le dichiarazioni rese ai carabinieri. “Giulio Bellocco e la moglie Spanò Aurora – mise a verbale la Cacciola – abitano a San Ferdinando e si può dire che il paese sia di loro proprietà, in quanto sono a conoscenza del fatto che, per qualsiasi investimento, anche per affittare una casa, è necessario chiedere l’autorizzazione a loro”.

Descrizione che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha riscontrato punto per punto nel corso dell’inchiesta “Tramonto” nell’ambito della quale la figura di Aurora Spanò va ben oltre quella della semplice compagna del boss Giulio Bellocco. Oltre alle intercettazioni inserite nell’ordine di custodia cautelare, le testimonianze vittime raccontano di una famiglia mafiosa di cui tutti avevano e hanno terrore a San Ferdinando. Chi non pagava doveva consegnare le chiavi della propria abitazione ad Aurora Spanò: “Mi disse che ci avrebbe buttato tutti fuori di casa – ha raccontato una delle vittime ai carabinieri – e suo figlio aggiunse che, se non avessimo subito consegnato loro gli appartamenti, avrebbero ucciso i miei fratelli che abitano al Nord. Ho molta paura sia per la mia incolumità che per quella dei miei familiari”.

I racconti dal carcere di Aurora. “Si rivolgevano a noi per avere giustizia”.
Una versione certamente più romantica quella che Aurora Spanò descrive nei suoi “racconti dal carcere”, finiti in un volume collettivo pubblicato dalla Mondadori, con i quali nel 2011 ha partecipato addirittura al premio “Goliarda Sapienza”. “Signor giudice, volete sapere chi sono io? – scrive la donna condannata a 25 anni di carcere – Ebbene, ascoltatemi. Chi fosse mio marito cominciai a scoprirlo con il tempo, e a condividere con lui gioie e dolori. Il mio uomo e la sua famiglia, undici fratelli, erano importanti e rispettati in paese e in tutta la provincia, se non in tutta la Calabria. Le persone si rivolgevano a loro per avere quella giustizia che spesso la legge non riusciva a garantire, per questo motivo nei rapporti delle forze dell’ordine apparivano come dei fuorilegge, perseguiti e accusati di tutto ciò che accadeva in paese, anche quando non c’entravano nulla. A causa di queste dicerie, mio marito fu ricercato attivamente da tutte le forze di polizia e costretto alla latitanza… Qual era l’ambiente nel quale sono vissuta? E come potevo, io, sottrarmi a queste regole?”.

Regole di una ‘ndrangheta che Aurora Spanò, senza pudore, sostiene essere formata da famiglie (mafiose) che vanno quasi in soccorso a uno Stato che in Calabria non riuscirebbe, secondo il suo modo di pensare, a garantire la giustizia.

Sentenze di morte recapitate dalle donne “postine”.
Aurora Spanò non è la prima donna mafiosa condannata a una pena pesantissima. Nel luglio scorso, è andata peggio a Lucia Giuseppa Morgante, vedova del boss Antonino Gallico e madre dei capicosca Giuseppe, Domenico e Rocco Gallico. Accusata di omicidio, la Corte d’Assise di Reggio Calabria l’ha condannata all’ergastolo, con 6 mesi di isolamento diurno. In attesa della Cassazione, la Direzione distrettuale antimafia (guidata dal procuratore Federico Cafiero De Raho) e i giudici di secondo grado ritengono che l’anziana donna (oggi ottantottenne) abbia “svolto il ruolo di ‘postino’ tra il figlio detenuto Gallico Giuseppe e il nipote Morgante Salvatore”. Un postino che, dal carcere, avrebbe consentito al boss ergastolano di fare arrivare gli ordini agli altri affiliati ancora liberi e impegnati in una faida contro la famiglia Bruzzese. Ordini che riguardavano le estorsioni e la gestione delle mazzette ma che in almeno due occasioni, secondo gli inquirenti, sarebbero state “ambasciate” di morte.

Lady ‘ndrangheta: il fuoco della vendetta.
Il matriarcato in chiave mafiosa non è un teorema di qualche magistrato. È un modo di pensare, un modo di essere che, alla luce delle risultanze investigative, colloca la donna nei ruoli più importanti della famiglia di ‘ndrangheta. Così è stato, per esempio, per le sorelle del boss Giovanni Strangio, condannato all’ergastolo per la strage di Duisburg, l’ultimo capitolo della sanguinosa faida di San Luca. In tutta la fase delle indagini e della latitanza del fratello, Angela e Teresa Strangio non hanno mai avuto momenti di cedimento. Sono state loro che hanno tenuto unita la famiglia, che mantenevano i contatti con il congiunto latitante e che, stando alle accuse della Dda, si occupavano addirittura del trasporto delle armi da guerra.

E ancora: negli archivi della Procura di Reggio sono famosi alcuni stralci di intercettazioni dell’inchiesta “Bellezza” in cui era emerso come il fuoco della vendetta cova sotto la cenere delle mogli e delle madri dei mafiosi di Africo. O dell’indagine “Cosa mia” coordinata dal pm Roberto Di Palma che ha scardinato la cosca Gallico di Palmi.

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