Un timido raggio di sole che si insinua tra i palazzi scalda il primo pomeriggio di un fine novembre bolognese. In sottofondo si sente il canto di preghiera dell’imam. Giaime accende una sigaretta di tabacco appena girata: “Il giorno dopo quello che è successo a Parigi, coi ragazzi del centro siamo andati a leggere il Corano. Ci tenevano così tanto quelli musulmani a spiegare agli amichetti italiani che la loro religione non insegna la morte”.
Giaime da 20 anni ha lasciato la sua Puglia. Qui a Bologna fa l’educatore al centro comunale Anni Verdi, che si occupa di integrazione per i ragazzini del quartiere Barca, periferia ovest di Bologna. Nello stesso vecchio stabile del doposcuola c’è anche la moschea, in realtà un centro di preghiera ricavato dalla porzione del vecchio capannone. Fino a qualche tempo fa qui venivano anche i quattro marocchini espulsi il 22 novembre dal ministro Angelino Alfano perché trovati in possesso di molto materiale inneggiante alla jihad e perché secondo la procura di Bologna erano dediti all’addestramento ai fini del terrorismo.
“Non è per fare sempre l’anima bella, ma sinceramente una cosa così non me la aspettavo”, spiega Giame, barba e capelli lunghi legati dietro la schiena. Capisci che qui nel quartiere è uno di quelli in prima linea e che i ragazzini qui gli vogliono tutti bene: giovani di ogni colore e religione (ma tutti con l’accento identico, emiliano) lo salutano con un sorriso. “Uno soltanto di questi espulsi penso di averlo conosciuto di vista. Sono anche andato a cercare i cognomi per capire se avevo qualche figlio di questi tra i miei ragazzi al centro. Poteva essere: del resto qui seguiamo 22 ragazzi e 14 sono musulmani“.
L’educatore è preoccupato per il clima che potrebbe crearsi: “Qui alla Barca c’è integrazione e non c’è razzismo. Soprattutto tra i ragazzi. Non siamo in una banlieue di Parigi e questa roba dei quattro, dico la verità, è stata un fulmine a ciel sereno. Dopo gli attentati de 13 novembre l’adolescente musulmano ha paura del pregiudizio, mentre il non musulmano si chiede se il suo amico un giorno potrebbe essere disposto a farsi saltare in aria”. Giaime non ha dubbi: “Bisogna farli avvicinare, questo secondo me può essere un antidoto alla violenza. Qui i musulmani e i cristiani giocano insieme, vanno a giocare a pallone insieme nei campetti della parrocchia”. E internet e i video dell’Isis? Impossibile pensare che i ragazzi, soprattutto quelli che capiscono l’arabo, non siano raggiunti dalle immagini mandate sul web dal cosiddetto Stato islamico: “Sai che cosa mi dicono i miei ragazzi? Semplicemente che quelli non sono musulmani“.
Intanto pochi metri più in là, nella moschea, la preghiera finisce. Mohamed ritira i tappeti utilizzati per inginocchiarsi. È da 25 anni in Italia. La domanda sui quattro se la aspetta. “Qui la moschea è aperta a tutti i musulmani che vogliono pregare, ma c’è un regolamento che riguarda il divieto di propaganda: qui si prega o si fanno dei corsi, ma questo genere di cose per l’amor di Dio non la sapevamo. Noi siamo rimasti sorpresi da questa storia”. I quattro espulsi proprio qui a via Rigola venivano a pregare. Ma in casa e sui loro computer in una perquisizione del 2012 la polizia aveva trovato documentazione in cui, ad esempio, si spiegava come portare un attacco terroristico alla sede della Bce.
“Dal 2012 non si sono più visti qui in moschea”, racconta Moustapha Zahr, nel nostro Paese dal 1985, educatore sociale, e imam della piccola moschea. È stato lui a tenere la preghiera del venerdì. Non si dà pace ripensando ai quattro. “Ci sembravano gente brava, ci siamo rimasti male. Io però non posso sapere che cosa sta frullando in testa alle persone. Anche se fosse stato solo carta e propaganda quello che gli hanno trovato in casa, non va bene lo stesso. L‘Italia è la nostra seconda terra e noi la amiamo, ci ha dato da mangiare e da lavorare, dei figli, robe che da noi in Marocco non avremmo potuto fare… e poi uno viene qui a fare il terrore? Perché?”. L’Imam ragiona poi più in generale sulle differenze tra Italia e Francia: “Non credo che qua in Italia ci sia un pericolo terrorismo. Piuttosto ho paura che ci sia gente che si infiltra da fuori”. In tanti pensano che nel mondo islamico possa esserci una sorta di omertà nei confronti di fanatici ed esaltati. Ma secondo Moustapha questo non è il caso di Bologna: “Noi diciamo sempre ai fratelli che se sanno che ci sono movimenti strani nella moschea allora devono avvisare noi o le autorità pubbliche“.
Il sole scende ed è ora di chiudere. Con Mohammed c’è Moustapha, omonimo ma più giovane dell’imam. Anche lui arriva dal Marocco: “Questi terroristi sono deboli, spesso hanno la testa vuota e chissà che cosa gli promettono: che entreranno nella storia, che diventeranno famosi come Rambo. Chi lo sa? Sono ragazzi giovani. Ma ti assicuro: il Corano dice di comunicare, di parlare, non di ammazzare”. Mohammed mette in moto la sua automobile e non ha dubbi: “L’Isis non c’entra niente con la religione. Chissà che cosa c’è dietro e speriamo che Dio ce ne liberi presto”. Nessun pericolo per l’Italia? Moustapha il giovane ci pensa un po’: “In Italia non c’è un pericolo, credo, almeno finché l’Italia non entra in guerra in Siria”.