Una delle indicazioni che ci consegna il Torino Film Festival appena conclusosi riguarda la presenza sempre più diffusa del documentario che, nell’ibridazione di forme, stili e narrazioni cui da tempo ci ha abituato il cinema, è ormai la zona produttiva dalla quale vengono quasi sempre le proposte più stimolanti. In questo senso le vere sezioni forti del Festival sono quelle che affiancano il concorso vero e proprio, il quale è troppo ingessato dalla sua formula rivolta ai premi per ospitare opere in qualche modo provocatorie.
Nell’ansia di attualità e di presa diretta sul reale che permea ogni uso dell’audiovisivo, che cosa documenta davvero il documentario? Agnès Varda, grande autrice francese, diceva che più che documentare questa forma tende sempre a “documentire” (in francese suona meglio: tout documentaire est un documenteur), ma il problema non è questo. Non è cioè quello dell’inesistente obiettività. Il problema è invece – soprattutto oggi – quello della compassione.
Vorrei prendere due film, tra i molti visti a Torino, opposti da questo punto di vista. Da un lato l’abbagliante The ecstasy of Wilko Johnson di Julien Temple, guest director quest’anno del Festival. Il film racconta il percorso verso la morte e poi verso la vita di Wilko Johnson, chitarrista e cantante rock da sempre trasgressivo, il quale, saputa la diagnosi infausta di un tumore, reagisce in maniera energetica rifiutando le cure e offrendo a se stesso i bei mesi dell’addio, durante i quali si esibisce anche in un “Addio Tour”. Il film mostra la reazione quasi estatica di Wilko, la sua forza che gli deriva da quello che egli chiama il “sense of tumour”, il saper godere della vita in tutti i suoi momenti e in tutte le manifestazioni. Di qui una luce tutta speciale che si irradia sul film, una luce di vita che parte dalla morte, anziché il contrario. E di qui anche la scelta di riprendere Wilko, mentre racconta in progress il suo percorso che non arriva mai alla fine malgrado il passare dei mesi, sullo sfondo di un mare nordico ma sempre assolato (dopo l’operazione e il “ritorno alla vita” di Wilko la scelta sarà inversa). Benché Julian Temple non si veda, tutto il film trasuda passionalità, o meglio compassione, e costruisce un racconto doppio: quello della malattia di Wilko che avanza e quello della pena di chi, filmandolo, gli è vicino ma non può che guardarlo, senza intervenire, quasi vergognandosi di questa passività: sono gli attimi “rubati” nell’espressione fuggevolmente malinconica di Wilko, le sue riflessioni sul Paradiso perduto di Milton, la dolcezza con cui si guarda il pubblico che osanna il cantante negli ultimi concerti. Qui il documentario, più che il suo oggetto, documenta la passione dell’io che struttura il racconto.
Dall’altro lato, all’estremo opposto, Colpa di comunismo di Elisabetta Sgarbi segue le avventure di tre giovani rumene in cerca di lavoro nella bassa padana. E lo fa pedinandole in questa loro laica Via Crucis durante la quale emergono anche le piccole o grandi differenze di aspettative, di psicologia, di disincanto. Tuttavia tutto il percorso del film è segnato dallo sguardo algido dell’autrice. Non c’è empatia, non c’è partecipazione commossa a questo dramma personale, che è anche un dramma sociale. C’è invece uno sguardo un po’ da entomologa (anche se il film è nato sulla scia della personale vicenda della madre della Sgarbi, che si è trovata ad aver bisogno di una badante). Come un’entomologa, del resto, l’autrice guarda anche gli italiani, altrettanto disperati nella loro solitudine che li porta davanti ai videogiochi o nelle sale da bowling. Il film finisce così, con solitudini e sconfitte che rimbalzano le une sulle altre. Non c’è passione nel guardare l’altro, il film lascia freddi perché è freddo, anche se sa individuare bene le psicologie dei personaggi.
E’ questo lo spartiacque che oggi ordina il vasto territorio del documentario: la capacità di raccontare la compassione, il saper patire con l’altro, nei modi fantastici delle Arabian nights di Miguel Gomes, ma anche in quelli più misurati di Dustur di Marco Santarelli, o, sia pur su un piano diverso, in quelli più retrospettivi ma non nostalgici di Felice Pesoli, che racconta gli anni Sessanta italiani in Prima che la vita cambi noi. Da Torino molti buoni segnali in questo senso.