“Gli interessi su debiti crescono senza pioggia”. (proverbio yiddish)
“Prendi, spandi, spendi, non domandare da dove provengono tanti dindi” (Betty Curtis, “Soldi, soldi, soldi”)
“La gente nuoterà nella merda, se ci metti dentro un po’ di scellini”. (Peter Sellers)
Il Teatro Piccolo Orologio sembra il luogo ideale dove far crescere speranze (“che si chiamano ragazzi”, direbbe quello dalle mani grandi) registiche, attoriali, drammaturgiche. Qui, da quattro anni, la compagnia MaMiMò, che quest’anno è stata riconosciuta dal Ministero con 100.000 euro in tre anni nella sezione under 35, tiene una stagione folta e agguerrita, ha una solida base di pubblico giovane creatasi dal basso con impegno e lavoro costante, senza mollare di un centimetro, senza arretrare. All’intellighenzia che la struttura esprime si uniscono i testi sfornati a getto continuo da Emanuele Aldrovandi, Premio Riccione 2013, insieme ad altri numerosi riconoscimenti, trentenne penna prolifica. Alla periferia di Reggio Emilia la nebbia taglia lo sguardo, l’odore forte di concime chiude le narici; dentro cento posti di sedie rosse in metallo in un ambiente intimo e funzionale, accogliente e aperto allo scambio.
Il testo vincitore del Riccione è questo “Homicide House”, , immersa in un allestimento cromatico lineare che tanto ricorda i fumettoni di Lichtenstein fino a sfociare in una Sin City negli aspetti più splatter-pop, una sedia gialla (già Van Gogh) e un tavolo paglierino, moderni, asettici, volanti e stazionanti a mezz’aria, come le cose sospese da trapezisti, quegli stessi oggetti familiari che ci fanno consuetudine, appoggio e sicurezza e che invece sono essenzialmente precari, senza base, fluttuanti come la donna tenue di Chagall, o la rosa meditativa di Dalì. Quattro piccoli indiani, per dirla alla Agatha Christie. Un’immagine di copertina che sa della patina degli 007, del vintage di Charlie’s Angels.
Colori che hanno importanza vitale nel dispiegamento dei caratteri in pista: l’uomo medio in grigio (Marco Maccieri, anche regista, sempre in piena padronanza) che mente sui debiti alla moglie sognatrice in rosa confetto bomboniera, l’usuraio con i pantaloni a scacchi, la torturatrice kapò mistress in nero latex e tacchi vertiginosi (Valeria Perdonò, vivace). Una lingua bianca, pavimento e fondale, tre lati pece e nel mezzo macchie di pigmenti come una tela gigante di Pollock, a scontrarsi, affrontarsi, unirsi, scrostarsi con un rumore di ghigliottina a fendere le scene.
Da una parte alberga il vivere al di sopra delle proprie possibilità, chiamali debiti o mutui o prestiti o fare ricorso allo strozzinaggio, (“Il denaro è la schiavitù moderna”, diceva Lev Tolstoj) dall’altro uno sciacallo dostoevskiano filosofeggiante che lo instrada, obbligandolo, alla pratica degli snuff movie già mostrati al cinema da Johnny Depp ne “Il coraggioso” del ’97 e Nicolas Cage in “8mm” del ’98. Più che altro il sottobosco delle bugie, castelli di sabbia, molossi di cartapesta, intrise di aspettative, delusioni e frustrazioni, il non essere all’altezza, il non sentirsi dei falliti, in questo mondo dove devi essere up, popolare. Avete presente Dexter? Lei è un torero con le banderillas all’ennesima prova con il suo nuovo gioco sacrificale. Il punto lievemente debole della drammaturgia, che avrebbe avuto bisogno di più dilazione temporale di svolgimento, è il troppo repentino cambiamento della generalessa, da killer a lover. Rimane però godibilissimo, significativo. La frase: “Anche le crisi oggi sono in crisi”.
“Gli disse lei ridendo forte, l’ultima tua prova sarà la morte. Fuori soffiava dolce il vento, tralalalalla tralallalero, ma lei fu presa da sgomento quando lo vide morir contento”. (Fabrizio De André, “La ballata dell’amore cieco”)