Maggio 2012, uomo in fuga dalla guerra in Sud Sudan – Foto di Olivier Jobard
Puoi partire da Londra o Bujumbura, non importa. Qualunque sia l’aeroporto, il gate del volo per Bruxelles è inconfondibile: sono tutti vestiti uguale. Hanno tutti la Samsonite nera, l’iPad in mano, le Church’s, il cappotto a tre quarti con il piumino dentro.
Sono tutti vestiti da funzionari. Tutti rasati per bene, le signore con il filo di perle.
Impossibile non notarli. Soprattutto se l’aeroporto è l’aeroporto di Atene, e tu vieni dalla Grecia, e in Grecia venivi dalla Turchia, e in Turchia venivi dall’Iraq, e sono settimane, o forse anni, che stai per strada, e più che per strada nel fango, nell’acqua, insieme a migliaia di siriani, afghani, iracheni. Hanno tutti la sacca di tela equa e solidale con il logo della Ue, dell’Unhcr, del Wfp, l’Iom, il Wwf, le sigle più disparate, sono stati tutti qui tre giorni, e sono tutti qui che parlano di quanto è drammatico quello che hanno visto, quanto gli ha sconvolto la vita per sempre, e di dove andranno questo weekend. E a me, onestamente, mi viene un attacco di allergia. Che siete venuti a fare a salvarli, se siete voi ad annegarli?
E’ inutile. A Bruxelles non riesco a stare più di un giorno. Perché non riesco a vedere la città. Ogni volta, mi è totalmente eclissata da queste decine, centinaia di funzionari tutti ingessati: con le loro vite strapagate lontanissime dal mondo di cui pretendono di occuparsi. E mi viene un attacco di tristezza. E poi di sconforto, e poi di insofferenza, e dopo un giorno, onestamente, rischio di tirare una scarpa in testa al primo che incontro: perché nei paesi, nelle guerre in cui vivo, di cui scrivo, nella fame, nella violenza, a colpirmi non è tanto l’efferatezza, la ferocia, i casi estremi, no: quello che più mi colpisce, sempre, è la banalità del male. Che sia la Siria o la Grecia.
Non mi colpiscono tanto i responsabili, quanto i complici. L’indifferenza. La vigliaccheria. L’egoismo. La burocrazia. Non ero ancora laureata quando sono andata in Kosovo, a Pristina, per un’internship alla sezione distaccata dell’ambasciata italiana a Belgrado – il Kosovo, all’epoca, era ancora parte della Serbia. E all’epoca, come anche ora, erano tutti a caccia di un visto per l’Europa. Ma l’ordine era uno solo: negarlo. A tutti. Dire no. Anzi. Neppure dire no. Erano due piani, e a giorni alterni, stavamo sotto o sopra. Per chiedere un visto, gli albanesi dovevano telefonare e fissare un appuntamento: ma quando stavamo al piano di sotto dicevamo di chiamare il numero del piano di sopra, e quando stavamo al piano di sopra, di chiamare il numero del piano di sotto. Magari erano imprenditori, studenti di dottorato, magari erano malati terminali. Non importava. O avrebbero invaso l’Italia.
C’era questa signora che aveva settant’anni, e tutti i figli ormai in Europa. E voleva andare a Londra a conoscere l’ultimo dei nipoti. Se anche fosse rimasta lì, una signora di settant’anni, e se anche i figli l’avessero lasciata in mezzo a una strada, una signora alta poco più di un metro, piccola piccola, una signora quasi morta, quanto mai sarebbe costata alle casse dello stato? Un’insalata al giorno? Ogni tanto una fetta di pollo?
Ma noi in fondo stavamo lì, nel nostro ufficio. Nient’altro. Tutti vestiti per bene. Ci limitavamo ad aggiungere un timbro, una firma. A sbrigare pratiche. A rispettare la legge. E invece, come diceva Luca Rastello, molti crimini sono migliori di questa legalità. E ogni volta ti dicono: è per ragioni di sicurezza. Ti dicono sempre così. E’ per ragioni complesse, è per l’equilibrio internazionale, per la stabilità macroeconomica. E’ per ragioni che noi, da fuori, non possiamo capire. Onestamente: è che noi dobbiamo avere quindici paia di scarpe, e due terzi dell’umanità camminare scalza. Non è per niente complesso. Avete cinque lauree e sette master, parlate otto lingue. Davvero è così complesso da capire?
Perché poi non è vero che non capiscono. Ed è anche per questo che non posso stare a Bruxelles più di un giorno. Perché ero anche io così, fino a tre anni fa, era il mio stesso lavoro. E quindi la sera, ogni volta, quando sanno che vieni da un’altra vita, dalla loro vita, tutti ti vogliono a cena, e dopo tre ore, tre ore e tre bottiglie di vino, sono tutti lì tristi che ti confessano quanto si sentono insensati. O inutili. O peggio: complici.
E però nessuno di loro va via. Nessuno di loro si dimette. Mi parlano per ore, tormentati. E so che si aspettano una parola di conforto. Una giustificazione, un’attenuante. Una cosa qualsiasi. Una cosa tipo: Ma io so che tu sei diverso. Ma io so che tu sei qui per cambiare le cose da dentro. So che tu poi a Natale compri i biglietti dell’Unicef.
Mi spiace. Quelli che hanno bisogno di una parola di conforto, nel mondo, sono altri. Sono quelli che, in questo momento, disperati, stanno aspettando che rispondiate al telefono, invece di andare in Grecia a lanciargli il salvagente. So che non siete tutti uguali, certo, e che alcuni di voi sono straordinari – ma è inutile. Io a Bruxelles non riesco a stare più di un giorno.