Lo Stato italiano vuole scendere a patti. A due uomini che hanno subito torture ai tempi in cui si trovavano detenuti nel carcere di Asti propone di chiudere la questione davanti alla Corte di Strasburgo dando 45.000 euro ciascuno. Mica spiccioli. Ma se lo Stato italiano riconosce la propria responsabilità, se ammette che nelle proprie galere a volte si tortura, se è disposto a sancire con dei soldi una tale ammissione, perché è da decenni inadempiente nell’introdurre il reato di tortura nel suo ordinamento?
I fatti in questione sono i seguenti: due detenuti nel carcere astigiano vengono buttati in una cella di isolamento, lasciati nudi al freddo in pieno inverno, pestati brutalmente, appesi a cardini per i lacci delle scarpe, privati del sonno e del cibo. A uno dei due viene fatto letteralmente lo scalpo, strappati capelli e cuoio capelluto. Antigone si costituisce parte civile nel processo che vede imputati cinque agenti di polizia penitenziaria in relazione a questi accadimenti. All’inizio del 2012, a tanti anni dai fatti e quando ormai si sfiorava la prescrizione, il giudice Riccardo Crucioli scrive una sentenza storica. Riassumendo in poche parole, scrive nero su bianco: gli eventi che sono stato chiamato a valutare rientrano perfettamente nella definizione di tortura che ci danno le Nazioni Unite, ma siccome in Italia non esiste il reato di tortura non ho strumenti sufficienti per mandare in carcere i torturatori.
I due ex detenuti, con l’aiuto di Antigone e di Amnesty International, presentano ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. La Corte dichiara il ricorso ammissibile. Lo Stato italiano, davanti a questa notizia, invece di aspettare la sentenza propone di chiudere la faccenda con una composizione amichevole, offrendo 45.000 euro a ciascuno dei due. Lascio a voi la valutazione. Nel frattempo in Parlamento sembra di nuovo affossata la discussione sul reato di tortura.