E’ rientrato in Italia “dopo cinquanta giorni di carcere in condizioni disumane, quaranta giorni di ospedale e venti mesi di incubo”. Daniele Bosio, ex ambasciatore del Turkmenistan, definisce così il periodo trascorso dal 5 aprile 2014, quando era stato arrestato a Manila con le accuse di traffico di esseri umani e di abuso e sfruttamento dei minori. Il diplomatico, nelle Filippine per una breve vacanza, era stato fermato dopo essere stato trovato in compagnia di tre bambini che – con il consenso dei rispettivi genitori – aveva rifocillato, rivestito e portato in un parco acquatico. Nient’altro. Ma era stato denunciato da due attiviste della Ong ‘Bahay Tuluyan‘. Dichiaratosi innocente, Bosio, che vanta una lunga militanza nel volontariato per bambini, è stato prosciolto per insufficienza di prove da un Tribunale filippino il 19 novembre.
Accuse “pesanti e dolorose” che hanno dato vita a “una vicenda infamante e ingiusta che stride con quanto è stato accertato e con la mia storia personale”, ha detto, ma dalle quali “la magistratura filippina ha riconosciuto la mia piena estraneità”. Non solo: perché nel corso della sua detenzione non sono mancati i momenti di tensione col ministero degli Affari Esteri, denunciati anche dalla sua famiglia e da un suo post pubblicato il 1 dicembre su Facebook. “Adesso comincia il lavoro duro – ha scritto Bosio online – Devo ricostruire una routine normale e magari riprendere a lavorare dove avevo lasciato. Nonostante i rapporti spesso non idilliaci che ho avuto con la Farnesina in questi mesi, continuo a pensare che il mio sia uno dei mestieri più belli e d’altronde è l’unica cosa che so fare relativamente bene. Vedremo. Spero solo di non continuare a essere considerato un problema burocratico”. Parole che stemperano la sostanza di quanto dichiarato sul ministero degli Affari Esteri in un’intervista a L’Inkiesta: “Su questa vicenda – ha dichiarato – la Farnesina ha tenuto la briglia lenta. Ma chi doveva tenere informato il ministero della mia situazione, spiegare quali rischi correvo, descrivere il quadro di miseria e povertà in cui si sono sviluppate le mie azioni, non l’ha mai fatto. E mi riferisco alla locale ambasciata italiana”. Cioè quella di Manila. La stessa che, nel giorno dell’arresto, ha impiegato 18 ore per rispondergli al telefono e che ha segnato, attraverso scelte difensive sbagliate, l’inizio di un drammatico iter giudiziario.
Bosio, rientrato in Italia, a breve farà domanda di riammissione in servizio, dal quale era stato sospeso il 7 aprile del 2014 in seguito alla convalida del fermo disposta dalle autorità filippine. “La motivazione con la quale il giudice ha chiuso il procedimento è limpida nel riconoscere la correttezza del mio operato, a partire dalla viva testimonianza degli stessi bambini. Voglio adesso guardare avanti, riprendere in mano la mia vita, ricominciare a lavorare al servizio del mio Paese così come ho sempre fatto con scrupolo e dedizione”, ha aggiunto. Dalla Farnesina fanno sapere che “la sospensione era avvenuta in ottemperanza alle disposizioni di legge, in attesa dello svolgimento del processo”, ma ora che “si è concluso, si valuterà la richiesta di riammissione in servizio dell’ex ambasciatore del Turkmenistan sulla base dei documenti che si stanno acquisendo e seguendo la procedura prevista in questi casi”.
Le mancanze della Farnesina e la lettera dell’ex imputato – La sua vicenda giudiziaria è stata al centro delle cronache anche – e soprattutto – per gli aspetti legati all’assistenza legale della Farnesina, denunciati anche dal fratello dell’ex imputato. In un primo momento, infatti, il ministero degli Esteri garantisce di essersi attivato tramite l’ambasciata. Ma le cose evolvono diversamente.
Come avevamo scritto su ilfattoquotidiano.it, solo 18 ore dopo l’arresto Bosio riesce a mettersi in contatto con le nostre autorità diplomatiche. Nello specifico l’ambasciatore italiano a Manila, Massimo Roscigno. Poi le cose peggiorano: l’ambasciata gli suggerisce un avvocato. Divorzista, non penalista. Che nel giorno dell’udienza non si presenta neanche. E quando un altro difensore d’ufficio locale che lo affianca, sottopone all’allora indagato dei documenti e, senza nemmeno leggerglieli, gli dice di firmare tutto. Con “il documento, dai contenuti incomprensibili per uno straniero”, scrive il fratello dell’ex imputato, Andrea, in una lettera inviata ai media a ottobre 2014, Bosio “rinunciava alla scarcerazione immediata e ai propri diritti di difesa e gli apriva immediatamente le porte del carcere“. Ovvero “una stanza di 30 metri quadrati con oltre 80 persone, alcune delle quali affette da gravi malattie, incluse la tubercolosi e l’Aids, pressoché senza ricambio d’aria, a temperature torride e tassi di umidità tropicali”. Lì è rimasto “40 giorni fino al ricovero ospedaliero seguito all’insorgere di gravi problemi renali causati proprio dalle terribili condizioni di detenzione”. E “anche in questa fase così delicata – precisa – il ruolo dell’Ambasciata è stato nullo: alla richiesta di fornirmi almeno il nome di un medico e di una struttura idonea, l’Ambasciatore mi ha risposto di rivolgermi direttamente agli avvocati”.
La sede diplomatica non mostra nemmeno maggiore interesse dopo “la decisione del giudice di concedergli la libertà su cauzione, lo scorso 9 luglio”. “Basti pensare che nell’ultima (la seconda dall’inizio del processo) udienza, svoltasi l’8 ottobre u.s., l’Ambasciata era rappresentata da un impiegato a contratto di nazionalità filippina”. Questo nonostante avesse “a disposizione un funzionario diplomatico e almeno tre impiegati di ruolo nella Cancelleria Consolare (su un organico dell’Ambasciata di otto dipendenti di ruolo e quattordici a contratto locale)”.
Oltre alle falle della difesa e alla mancata assistenza della Farnesina, il fratello di Bosio a ottobre 2014 accusa anche la ong di lucrare sulle accuse all’ex ambasciatore: “Daniele aveva chiesto ai bambini di ottenere il permesso dei genitori per venire al parco, e i genitori stessi hanno dichiarato per iscritto con affidavit giurato di averlo dato”. E, infine, sottolinea “che l’organizzazione non governativa accusatrice usa gran parte dei contributi che riceve per acquistare immobili (edifici e terreni) e per pagare stipendi, e le resta appena un 5 per cento per i programmi educativi”. Ma l’escalation di incongruenze, errori e mancanze non è ancora finita. Il giudice non ha voluto “accettare e accogliere le citate dichiarazioni dei genitori e il loro avvocato è stato costretto a farle legalizzare da un notaio e consegnarle con 2 giorni di ritardo”. Il risultato? Che non sono state ammesse alla documentazione della difesa.