Inizia, con questo, una nuova serie di post del mio blog intitolati Glosse.
Essi sono destinati all’approfondimento di alcuni temi trattati nel corso delle dirette web ospitate dal mio sito internet e dedicate – in collaborazione con la rivista letteraria Nuovi Argomenti e con la sua rubrica online di poesia multimediale, curata da Maria Borio – alla ‘poesia fuori dai libri’, cioè a tutte quelle esperienze poetiche che non si esauriscono nel solo aspetto testuale e alfabetico. Le registrazioni delle dirette accompagnano i post a loro dedicati.
Questa prima Glossa deve, però, aprirsi con una ‘errata’, poiché nel corso della prima puntata, dedicata ai rapporti tra poesia e musica, nel corso del mio discorrere con il musicologo Stefano la Via, tradito dalla dinamica del dibattito, ho erroneamente attribuito a Luporini (paroliere di Gaber), invece che a Fabrizio Bentivoglio, la collaborazione con De André per il suo ‘concept album’ Storia di un impiegato. Visto poi che alla pubblicazione di quell’album fece seguito un’aspra polemica proprio tra Gaber e De Andrè, il tutto potrebbe assumere valenza di lapsus e dunque le scuse che porgo sono doppie.
Detto questo, dei tanti temi toccati nella chiacchierata con La Via, vorrei concentrarmi qui sul nodo concettuale, sul gliommero decisivo di tutto il nostro discorrere e cioè quello che si domandava come attribuire all’una o all’altra disciplina una serie di prodotti ibridi, a maggior ragione visto che la contemporaneità, che di creolizzazioni si nutre, ha complicato ancor più la faccenda, per esempio con l’arrivo sulla scena del rap.
La domanda che in Italia ricorre a proposito del fatto che certi cantautori possano essere considerati, o meno, poeti, non è che la vulgata di questo problema. Da questo snodo principale potrà venir qualche luce anche su altro di quanto discusso.
Le due arti hanno una storia secolare di ‘vicinato’, magari non sempre felice, ma certamente intenso, visto che entrambe, senza imbarazzo, ascrivono a sé opere che inglobano anche elementi dell’altra. L’Aida è certamente parte della storia della musica, anche se l’opera comprende tanto suoni, mentre le Canso dei Trovatori hanno la loro allocazione prima di tutto in quella della poesia, ma erano certamente ‘temperate’ con la musica.
Come lucidamente notava La Via rispetto a quanto accadeva per il madrigale, nel quale si realizzava una collaborazione tra un poeta e un musicista e dunque tra due sistemi formali estremamente complessi e ‘storicizzati’, nel caso della grande canzone d’autore, almeno in linea di principio, queste due ‘abilità’ si riuniscono nella medesima persona, un po’ come nel caso dei Trovatori. La tesi di La Via è che, qualora ci si trovi di fronte ad autori (o a coppie di autori) capaci di sposare realmente le due esigenze formali, si accede a una dimensione terza e comune, non ascrivibile a nessuno dei due specifici, ed essa ha un fascino innegabile.
Nondimeno, molti dei protagonisti ‘musicali’ contemporanei, penso a Chico o a De Andrè, hanno esplicitamente negato di considerarsi poeti.
A complicare ulteriormente la faccenda sta poi la natura sostanzialmente ‘performativa’ di entrambe le arti, la quale fa sì che l’a-capo del verso tipografico non sia altro, in realtà, che forma grafica che rimanda a un respiro, o, se si preferisce, a un ‘tempo’; non l’aspetto distintivo della poesia, ma solo il segno di un ‘corpo’, essenziale, che non c’è.
Attingendo a una preziosa intervista all’autore brasiliano condotta da La Via stesso e compresa nel suo ultimo volume, viene in mente che possa essere decisivo in questo caso stabilire, letteralmente, cosa ‘venga prima’: se la musica o le parole. Parleremmo cioè di un paroliere nel caso di chi scelga di adeguare le sue parole ai ritmi e alle armonie preesistenti di una musica, mentre un poeta sarebbe qualcuno che, in piena libertà formale, struttura una ‘macchina’ ritmica e sonora fatta di parole, che sta in piedi da sé, e che dopo potrà eventualmente temperarsi, o, come direbbe La Via, orchestrarsi con la musica.
Da questo punto di vista, fatte tutte le eccezioni del caso, c’è un ‘paroliere’, piuttosto che un poeta, in ognuno dei nostri cantautori.
Mentre Horacio Ferrer, conosciuto ai più come ‘paroliere’ di Piazzolla, era evidentemente un poeta, un poeta in grado poi di eseguire da sé quanto Piazzola aveva musicato e le cui composizioni continuavano a funzionare perfettamente anche su carta.
Come suggeriva La Via, un altro caso da guardare con attenzione sarebbe quello di Leonard Cohen, nato poeta e poi convertitosi alla musica, senza perdere nulla della sua efficacia strettamente letteraria.
In ogni caso – e questo val davvero la pena di sottolinearlo una volta di più – come rammentato da La Via, Dante nel suo De Vulgari è estremamente esplicito al riguardo, ammettendo che di poesia si possa parlare sia nel caso di testi destinati a fruizione ‘mentalista’, quanto nel caso di esecuzioni ad alta voce (oggi diremmo spoken word) e in quello di temperamento delle parole con la musica, come doveva essere il caso di tante sue canzoni e dell’attuale spoken music, o ‘poesia per musica’ che dir si voglia. Né c’è ragione alcuna di cambiare idea al proposito.
Ciò significa, sostanzialmente, affermare che non è accettabile indicare il ‘temperamento’ con la musica come una zavorra che tiene basso il livello formale di quei testi poetici che decidano di fondersi con le armonie sonore: con buona pace del Contini e dei suoi, ancor meno convincenti, esegeti contemporanei. E sottolinea anche, e non è poco né di minor conto, che, in realtà, al di là di qualsiasi aggettivazione, o neo-nominazione (poesia performativa, poesia per musica, spoken music, spoken word, slam poetry), ciò di cui stiamo parlando andrebbe chiamato, semplicemente, poesia.