Chiusa dalla Dda di Brescia l'inchiesta "Pesci", incentrata sull'imprenditore mantovano di origine crotonese Antonio Muto. Contestata aggravante mafiosa agli ex parlamentari Grillo e Bonferroni (P2) e l'ex presidente del massimo organo di giustizia amministrativa De Lise. Avrebbero premuto per far passare speculazione da 200 ville di fronte alla reggia dei Gonzaga. Pm: "Predominio nelle istituzioni"
Duecento ville e un albergo sulla riva del Lago Inferiore di Mantova, di fronte alla reggia dei Gonzaga. Una colata di cemento voluta da un imprenditore calabrese, approvata nel 2005 dal Comune di Mantova e da dieci anni oggetto di una controversia giudiziaria. Per difendere gli interessi del costruttore Antonio Muto, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, si muovono faccendieri, intermediari, sindaci e parlamentari. Un gruppo potente, in cui spiccano gli ex senatori Luigi Grillo (a destra nella foto) e Franco Bonferroni, capace di arrivare ai piani più alti delle istituzioni. Fino al presidente emerito del Consiglio di Stato, Pasquale De Lise.
È quanto emerge alla conclusione dell’inchiesta “Pesci” della Direzione distrettuale antimafia di Brescia sulla ‘ndrangheta in Lombardia, che nel febbraio scorso ha travolto Mantova (e l’allora sindaco del Pdl Nicola Sodano indagato per corruzione e peculato) rivelando il radicamento nel tessuto economico del clan Grande Aracri di Cutro e i collegamenti politici vantati dagli imprenditori amici. I pm Claudia Moregola e Paolo Savio hanno notificato gli avvisi di conclusione indagini a 27 indagati, 12 dei quali accusati di associazione mafiosa di stampo ‘ndranghetistico, mentre ai politici Sodano, Grillo (che un anno fa ha patteggiato due anni e otto mesi nell’inchiesta per corruzione su Expo) e Bonferroni, al magistrato De Lise e agli intermediari Fanini e Zobbi è stata contestata l’aggravante mafiosa dell’art. 7 della legge 203 del ’91.
I contatti con banche e politica. “Non si muove foglia che Muto non voglia”. Così nel mantovano si era soliti parlare del costruttore Antonio Muto, calabrese di Cutro, arrivato a Mantova nel ’90 come muratore e diventato in pochi anni il più importante imprenditore edile della provincia. Un uomo che poteva vantare relazioni privilegiate di altissimo livello con il mondo bancario (tra cui i vertici di Mps) e con la politica. Quando il progetto edificatorio di Muto sulle rive del Lago Inferiore – la “lottizzazione Lagocastello” approvata nel 2005 come ultimo atto della giunta del sindaco dei Ds Gianfranco Burchiellaro – viene fermato dalla giustizia amministrativa, in suo aiuto arrivano importanti esponenti della politica. Per assicurargli un verdetto favorevole al Consiglio di Stato – secondo i pm – sarebbero scesi in campo l’allora sindaco di Mantova del Pdl, Nicola Sodano, l’ex senatore del Pdl Luigi Grillo (allora presidente della Commissione lavori pubblici e comunicazioni del Senato), l’ex senatore Dc Franco Bonferroni (già consigliere di amministrazione di Finmeccanica e membro della loggia P2) accusati a vario titolo dalla Dda di Brescia di corruzione, anche in atti giudiziari, e utilizzazione di segreti d’ufficio, insieme agli intermediari Attilio Fanini, Tarcisio Costante Zobbi e al presidente emerito del Consiglio di Stato Pasquale De Lise. Con l’aggravante di aver favorito un’associazione mafiosa.
La sentenza del Consiglio di Stato. Proprio al Consiglio di Stato nei primi mesi del 2012 si gioca una delle partite chiave per il costruttore calabrese. La lottizzazione di Lagocastello, fermata da una tenace sindaco dei Ds, Fiorenza Brioni, è in attesa di una sentenza decisiva di secondo grado. Comincia a muoversi un intermediario instancabile, il commercialista veronese Attilio Fanini. È lui a portare la questione al senatore Luigi Grillo, che avrebbe poi attivato un canale con l’allora presidente del Consiglio di Stato Pasquale De Lise, l’alto magistrato che poco prima di andare in pensione aveva formato quel collegio giudicante. Il senatore Grillo, in cambio – secondo l’accusa – avrebbe sostenuto De Lise nella corsa alla nascente Authority dei Trasporti (l’audizione della Commissione lavori pubblici per il parere parlamentare sui designati all’authority sarebbe stata officiata proprio da Grillo in qualità di presidente). Ma la sentenza del Consiglio di Stato, depositata il 3 luglio 2012, darà ugualmente torto all’imprenditore Muto, mettendo una pietra tombale sui lavori. “Ma com’è possibile, cazzo! Ma se gli ho parlato ieri sera! – sbotta Fanini appena appresa la notizia, intercettato dai carabinieri – Non riesco a capire, perché insieme ai tuoi avvocati ho avuto le più ampie rassicurazioni che ce n’era solo uno contro e gli altri due erano d’accordo”.
L’incontro con il sottosegretario Cecchi. Dopo la sentenza sfavorevole riparte la macchina delle trattative riservate. Fanini, il senatore Grillo, il sindaco Sodano e l’ex senatore Bonferroni – ricostruiscono gli investigatori – si adoperano per far autorizzare agli enti un nuovo progetto edificatorio ridotto. Per aiutare Muto gli indagati sarebbero arrivati a pensare addirittura a una riperimetrazione dei confini del Parco del Mincio, i cui disegni tecnici sarebbero stati “predisposti presso lo studio professionale” del sindaco Sodano. Il commercialista Fanini, ascoltato dagli investigatori mentre parla al telefono con Muto, annota il nome di un dirigente della Soprintendenza che negli anni si è opposto alla lottizzazione: “professor Rompicoglioni”. E l’opera di tessitura arriva fino all’allora sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali, Roberto Cecchi (non indagato), da cui si reca il sindaco Sodano in persona il 24 luglio 2012. Al centro delle indagini anche il progetto di incontro, poi mancato, al 23esimo Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini tra Sodano, Grillo, Fanini e due importanti esponenti della Regione Lombardia che non risultano indagati: l’allora assessore alle Infrastrutture Raffaele Cattaneo (ora presidente del Consiglio Regionale), e il segretario generale, già sottosegretario andreottiano ai servizi segreti, Nicolamaria Sanese.
Gli incendi e il clan Grande Aracri. L’intera indagine “Pesci”, collegata all’inchiesta Aemilia della dda di Bologna, prende avvio in seguito a un’escalation di incendi contro aziende edili, tra il dicembre 2010 e l’ottobre 2011, sulla cui matrice gli investigatori hanno voluto andare a fondo. Grazie alle denunce di alcuni imprenditori emerge così la presenza, tra le province di Mantova e Cremona, di un gruppo ‘ndranghetista “dotato di autonomia programmatica, operativa e decisionale” rispetto alle ‘ndrine calabresi, che pratica estorsioni, incendi, riciclaggio, falsa fatturazione e mira a conquistarsi gli appalti e “il predominio nell’ambito delle istituzioni”.
La data chiave è il 17 giugno 2011, giorno della liberazione del boss Nicolino Grande Aracri. Dalla sua villa hollywoodiana di Cutro, in Calabria, protetta da dispositivi anti-intercettazione, Grande Aracri riprende a coordinare le locali di ‘ndrangheta che operano al nord. I referenti, Francesco Lamanna per Cremona e Antonio Rocca per Mantova, controllano il territorio e i subappalti nei cantieri di Antonio Muto, accusato di concorso esterno per aver fornito un “contributo concreto, specifico, consapevole e volontario alla struttura criminale”. Fino a poco fa, chi lo accusava di rapporti con la ‘ndrangheta pagava un conto amaro. Lo ricorda Muto stesso, intercettato dai carabinieri sulla sua Audi A8, riferendosi al direttore di un giornale locale finito davanti al giudice, in seguito alla sua querela, per averlo accostato alla mafia: “Si è inginocchiato a terra…mi ha detto…guarda non rovinarmi…non rovinarmi (…) dopo l’ho ritirata e ha fatto gli articoli che volevo io”.
Il pg Dell’Osso: “Indagini in tutto il distretto”. Il procuratore generale di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, che si è battuto per l’istituzione della Dia (Direzione investigativa antimafia) a Brescia arrivata nel gennaio scorso, spiega a ilfattoquotidiano.it come il distretto sia “pesantemente inquinato dalla criminalità organizzata soprattutto di stampo ‘ndranghetista, ma sotto il profilo del reinvestimento di capitali anche camorrista. Le indagini sono in corso di sviluppo – continua Dell’Osso – oltre che a Mantova e Cremona, anche nelle altre province del distretto, finanziariamente ed economicamente di grande rilevanza”. Il distretto di Brescia, “che equivale a metà Lombardia ed è il quarto d’Italia – conclude Dell’Osso – ha nella macroarea di Brescia e Bergamo il primo polo bancario, finanziario e industriale del Paese e per questo già due anni fa ho espresso la convinzione che si dovessero mettere in campo tutte le risorse antimafia disponibili”.