Accesso antimafia al porto di Gioia Tauro. Lo ha stabilito la prefettura di Reggio Calabria che, stamattina, ha ordinato agli uomini della polizia di stato, dei carabinieri, della guardia di finanza e della Dia di passare al setaccio quello che, da oltre 20 anni, è ritenuto una depandance della ‘ndrangheta, una delle porte di ingresso in Europa della cocaina proveniente dal sud e centro America. Proprio ieri, infatti, le fiamme gialle hanno rinvenuto 344 chili di droga all’interno di due container provenienti dal Brasile e diretti uno in Slovenia e l’altro a Trieste. Un affare che avrebbe fruttato alle cosche circa 70 milioni di euro.

Il prefetto Sammartino ha chiesto alle forze dell’ordine di capire chi lavora dentro il porto. Non solo prevenzione perché a Gioia Tauro, da sempre, anche i colossi delle multinazionali si sono piegati ai voleri della cosca Piromalli e delle altre famiglie mafiose. Emblematica, a proposito, è la frase intercettata negli anni Novanta e finita nell’inchiesta che ha portato al processo “Porto” istruito dal pm Roberto Pennisi. “Diamo noi le garanzie” aveva assicurato l’11 novembre 1996 Domenico Pepe, l’esponente delle cosche Piromalli e Bellocco mentre parlava con uno dei vertici della MedCenter: “Comandiamo tutto. Chiediamo un dollaro e mezzo a container. Noi siamo il presente, il passato e il futuro”.

Il futuro ha dato ragione a Domenico Pepe. Non diceva un’eresia quando sosteneva che la “Famiglia” (così vengono chiamati i Piromalli che avevano pure una villa su una collinetta con vista porto) comandava tutto. Basta considerare che, ancora oggi, le inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, guidata dal procuratore Federico Cafiero De Raho, dimostrano come il porto di Gioia sia in mano ai clan. Non si contano, infatti, le indagini del procuratore aggiunto Nicola Gratteri sul narcotraffico internazionale che, in buona parte, passa dal porto di Gioia Tauro così come da altri importanti scali olandesi e spagnoli.

Cocaina, politica e affari. Pochi anni fa, con l’operazione “Cento anni di Storia”, il pm Roberto Di Palma e la squadra mobile hanno dimostrato come i Piromalli e le altre famiglie della Piana di Gioia Tauro erano infiltrate in alcune società che lavorano dentro lo scalo. Si tratta di quell’indagine in cui gli investigatori, seguendo le tracce di un emissario della cosca Piromalli, Gioacchino Arcidiaco, si erano imbattuti, nel faccendiere Aldo Micciché, il personaggio (poi diventato latitante fino all’arresto nel 2012 a Caracas, ndr) il quale doveva aprire alla ‘ndrangheta le porte della politica che conta, quella di Forza Italia attraverso Marcello Dell’Utri.

Più recentemente la guardia di finanza ha scoperto un vero e proprio “service” composto da soggetti che lavoravano dentro il porto e che si occupavano di recuperare i borsoni di cocaina inseriti nei container dai narcos sudamericani.

Su Gioia Tauro, considerato il quarto porto italiano per traffico di merci, nel febbraio scorso si era soffermato anche il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, secondo cui lo scalo calabrese “è la vera porta di ingresso della cocaina in Italia”, grazie a “una penetrante azione collusiva” che permette ai boss di godere di “ampi e continui appoggi interni”. Sempre la Dna, nella sua ultima relazione, ha sottolineato come in Calabria ci sia una “presenza asfissiante delle ‘ndrine in tutte le realtà economiche e produttive, a partire da quella che doveva essere il punto di partenza di un grande rilancio economico, il porto di Gioia Tauro”.

Ritornando all’accesso antimafia, questo potrebbe fare luce su un sistema che grazie alle inchieste giudiziarie è emerso solo in parte. Un sistema di infiltrazione mafiosa che fa della ‘ndrangheta uno degli interlocutori obbligati per chi ha intenzione di investire sul porto di Gioia Tauro.

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