“Una cagna in mezzo ai maiali” (Francesco De Gregori, “Viaggi e miraggi”)
“Mi piacciono i maiali. I cani ci guardano dal basso. I gatti dall’alto. I maiali ci trattano da loro pari” (Winston Churcill)
“E’ proprio tanto buffo che un uomo che ha attraversato la vita e conosciuto migliaia di persone finisca per preferire i maiali?” (Ryszard Kapuscinski)
Che fine farà adesso la Compagnia Stabile dell’ex Stabile della Toscana, tutta incentrata sul sodalizio, artistico, tra la primattrice e il regista ed ex direttore? Andatosene Paolo Magelli, dopo un lungo regno e strascico, il primo triennio e dopo un ulteriore biennioe ed essendo arrivato Franco D’Ippolito, che ne sarà adesso del quintetto Banci-Borghi-Mascagni-Malinverno-Langone senza la loro ala protettrice, nume tutelare e faro illuminante? Chi ha visto questo Porcile pasoliniano questa estate a Spoleto riferisce che Alvia Reale era bravissima. Ci mancherebbe, come sempre, ci sarebbe da aggiungere. Ma al Metastasio non c’era.
Porcile, a quarant’anni dalla morte del poeta, oggi che tutti ne rievocano le gesta, i trascorsi, come se ci fosse qualcosa da festeggiare, da piroette e lustrini, ha finalmente respiro nazionale. Porcile è un’allegoria delle scelte controverse e della fine ingloriosa di PPP. Il sesso come ossesso e ossessione, fulcro attorno al quale erigere esistenze, fanatismo ed eccessi, perno di esagerazioni e abusi, giustificazione e protesta. Un grande magma da digerire sublimato. Un Pasolini sobrio e ripulito, troppo, con luci abbaglianti alla Bob Wilson, come se fossimo nella camera d’obitorio, liscio, senza linfa, senza la carne e le sensazioni di sporco, imperfetto, livido, unto, viscido, appiccicoso delle quali sono intrise le sue opere, le sue righe, i suoi ciak. Dov’è il Valerio Binasco che abbiamo apprezzato più ne La tempesta, che nel Mercante di Venezia a dir la verità, quello fresco, poetico, divertente e profondo, leggero e giocoso, brillante di pennellate e tocchi? Qui, in questa melassa tragica ma velata di una patina ammorbante di rassegnazione, di pop pulito, appare la maglietta di Che Guevara (che all’epoca della scrittura del testo non era ancora stato ucciso), e un paio di canzonette e motivetti glam.
Qui le caratterizzazioni marcate dei vari personaggi, chi con l’erre moscia, chi sembrava il primo Paolo Villaggio mixato al cattivo di 007, rischiano pericolosamente di scivolare sulla classica buccia di banana con il rapporto tra i due giovani, che sempre urlano troppo però, Julian (cappello grunge, capelli mesciati, depresso come un emo) e Ida (bambina isterica punk sbraitante), che si avvicina al duo Amleto-Ofelia per slittare in Romeo e Giulietta, forse la materia più congegnale per il regista formatosi allo Stabile di Genova. Molto burattineschi nella risate eccessive come nei pianti forzati. Un Pasolini cechoviano ha senso?
Tra tutte le figure che sfiorano il macchiettistico, nette e lineari, in mezzo a tante sinusoidi e parabole e curve e iperboli, è l’elegante Fulvio Cauteruccio, che arriva pirandelliano, taglia la scena, la punteggia, la scuote, la inchioda e la ferisce come segno di Zorro. Il suo passaggio, anche quando immobile, è corposo e di peso, di sostanza e materico, è e non appare. Come interessante l’idea del sipario di luce (concepito da Lorenzo Banci) che si chiude e apre per piccoli cambi scena in penombra. A tratti floscio e moscio, non si scorge la forza dirompente, provocatoria e dissacrante, disturbatrice e clamorosa, di rottura degli schemi e dello status quo, di rivolta e ribaltamento, di PPP. Avrebbe apprezzato? Altro giro, altra corsa. E adesso, la domanda sorge spontanea: che fine farà la compagnia stabile di uno Stabile che stabile non lo è più? “Trallallero, trallallà”?
Visto al Teatro Metastasio di Prato, il 12 novembre 2015.