Mario Draghi, per una volta, delude i mercati. Si capisce chi ha vinto quando il presidente della Bundesbank tedesca, Jens Weidmann, rivendica che rafforzare il Quantitative easing “non era necessario”. Le attese per la riunione dei governatori delle Banche centrali, a Francoforte, erano molto alte: tutti si aspettavano che la Bce annunciasse un secondo round di Quantitative easing, cioè aggiungesse munizioni a quel bazooka che da gennaio cerca di rivitalizzare i prezzi e le economie dell’Eurozona con acquisti mensili di titoli (soprattutto di Stato) per 60 miliardi. E che non ha raggiunto l’obiettivo.
L’inflazione resta inchiodata allo 0,1% nel 2015, ben lontana da quell’obiettivo del 2% che la Bce considera l’obiettivo. Il Qe era progettato per finire intorno al settembre 2016, ma visti gli scarsi risultati è stato esteso al marzo 2017. Lo ha deciso ieri Draghi insieme ad altre misure che, secondo il blog finanziario Zerohedge, sono una “pistola ad acqua”. La principale è la riduzione di 0,1 punti percentuali (il mercato si aspettava 0,15) – cioè da -0,2% a -0,3% – del tasso sui depositi delle banche presso la Bce. In pratica gli istituti di credito vengono ancor più penalizzati se tengono ferma sui conti della Bce la liquidità ottenuta proprio da Francoforte.
Viene poi estesa la gamma di titoli acquistabili ai debiti regionali e il consiglio compenserà con nuovi acquisti i bond che arrivano a scadenza, mossa questa non ancora incorporata dai prezzi di mercato. Il 17 novembre, in un’intervista a Bloomberg, il capo economista della Bce Peter Praet ha spiegato perché è così difficile prevedere e influenzare l’andamento dell’inflazione: “Le proiezioni sono basate sulle condizioni finanziarie e le condizioni finanziarie incorporano le aspettative sulle azioni di politica (monetaria)”.
Draghi sembra essere prigioniero di questo circolo vizioso: gli investitori – e a catena le istituzioni internazionali e i governi – hanno riposto in lui una fiducia illimitata, tendono a interpretare ogni suo sospiro come l’an nu ncio di misure epocali, sulla base di queste attese rivedono al rialzo le proprie aspettative sull’economia, la Bce ne tiene conto e si attende un certo andamento dell’inflazione. Ma se poi –come è avvenuto ieri – il consiglio dei governatori annuncia qualcosa in meno rispetto alle insaziabili richieste dei mercati, tutto il castello crolla. Per aggiungere un livello di complicazione: la Bce non può adottare misure troppo drastiche perché sarebbe come ammettere il fallimento di quelle precedenti e l’errore sulle stime per il futuro. E questo ridurrebbe da subito l’effetto di qualunque cosa venisse varata.
Come scrive Marco Valli di Unicredit, “non è facile spingere uno stimolo molto aggressivo quando le stime dello staff Bce prevedono un contesto macroeconomico sostanzialmente invariato e la stabilità dei prezzi nel giro di due anni”. È il Comma 22 della politica monetaria: la Bce deve incorporare nelle sue previsioni economiche il successo delle proprie azioni, per renderle credibili. Ma così facendo si preclude la possibilità di passare a misure più drastiche, visto che il contesto promette comunque normalità. Nessuna sorpresa, quindi, che ieri le Borse siano andate in rosso e l’euro si sia rafforzato, invece di indebolirsi: i trader che avevano scommesso su un vero Quantitative easing 2, e quindi si aspettavano un indebolimento della valuta europea, hanno dovuto ricomprare euro per coprirsi.
Nel frattempo, dagli Stati Uniti, la presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, ribadisce che è imminente il rialzo dei tassi di interesse, sia pure graduale, per il dollaro. E da mesi tutti gli economisti si interrogano su quali saranno le conseguenze di avere, per la prima volta in cinque anni, una politica dei tassi divergente, con una delle grandi Banche centrali che è espansiva (la Bce) e l’altra che inizia a stringere (la Fed) per non surriscaldare l’economia. Vedremo. Per la politica il messaggio – che Draghi ribadisce ogni giorno – non potrebbe essere più chiaro: il tempo in cui la politica monetaria risolveva tutti i problemi dei governi è finito. Siamo in terra incognita, soprattutto se i governi non vogliono, o non riescono, a fare riforme che aiutino la crescita.