Mondo

Genocidio in Ruanda, storia degli eroi italiani

“Stavamo bene insieme”, ricorda Innocent Rwiliza, un professore di Nyamata. “È stato più tardi che i politici vennero a rovinare tutto”. Nel Marzo 1992, Radio Rwanda trasmise notizie false secondo cui i leader Hutu del Bugesera stavano per essere uccisi dai Tutsi del distretto1. Fu il pretesto utilizzato per scatenare la prova generale del genocidio che tra l’aprile ed il luglio del 1994 avrebbe causato l’atroce morte di circa un milione di persone.

Fin dal 1990, il Ruanda si trovava sprofondato in una terribile guerra civile che vedeva opposti, da una parte, l’esercito regolare ruandese monoetnico Hutu, e dall’altra, l’Esercito Patriottico Ruandese, composto dai figli e nipoti di quei rifugiati Tutsi che erano sfuggiti ai massacri avvenuti tra il 1959 ed il 1963, che il filosofo Bertrand Russell aveva definito come “il massacro più orribile e sistematico dai tempi dell’Olocausto”. Dopo il fallimento degli sforzi diplomatici di Oua ed Onu volti a permettere il ritorno pacifico dei rifugiati del 1959, essi avevano deciso di rientrare in armi in Ruanda a partire dalle loro basi in Uganda, alimentando la psicosi etnica in un paese dove, oltre alla maggioranza Hutu (circa l’85% della popolazione), viveva ancora una minoranza Tutsi che non aveva mai lasciato il paese.

Contro questi Tutsi dell’interno, fin dagli anni ’50, era stata promossa una propaganda estremista, secondo la quale essi non sarebbero stati dei ruandesi ma degli immigrati stranieri, “nilotici” intrinsecamente perversi che minacciavano il bravo popolo bantu Hutu che li aveva accolti nel suo seno e i cui complotti andavano assolutamente neutralizzati al fine di difendere il “popolo maggioritario”. Così, a partire dal settembre del 1991, erano stati istituiti dei gruppi di autodifesa civile ed erano state condotte strategie d’“identificazione del nemico” tra la popolazione. Per nemico s’intendevano non solo i Tutsi dell’esterno come dell’interno, ma anche gli Hutu che avevano rapporti con loro, gli oppositori del regime Hutu, gli stranieri sposati con donne Tutsi e “tutte le popolazioni nilo-camitiche” della regione. Un nuovo partito estremista vicino al potere, la Cdr (“Coalizione per la Difesa della Repubblica”), veniva creato nel marzo 1992 per alimentare la paura e l’odio nel paese, insieme alla neonata milizia Interahamwe (“Coloro che attaccano insieme”) e ai media del genocidio, come la rivista Kangura e la famigerata Rtlm (Radio-Televisione Libera delle Mille Colline).

I massacri di oltre 300 Tutsi nel Bugesera non erano stati i primi. Erano stati preceduti, a inizio 1991, dal massacro dei Bagogwe, un gruppo assimilato ai Tutsi e da sempre considerato dagli Hutu del nord del Rwanda come una casta inferiore e marginale. E vi furono stragi di Tutsi nell’ex prefettura di Gisenyi, nella regione di Gitarama e nella zona di Kibuye, sulle sponde del lago Kivu. Si mettevano così alla prova le capacità e la determinazione delle milizie Interahamwe e Impuzamugambi, rispettivamente i gruppi giovanili del partito governativo e della Cdr. Ma l’obiettivo era anche testare la reazione della comunità internazionale.

E fu grazie alla bergamasca Antonia Locatelli, una missionaria italiana presente in Ruanda dal 1972, che la comunità internazionale, quella volta, reagì. Avendo assistito di persona alla carneficina, Antonia Locatelli diede infatti l’allarme per telefono all’ambasciata belga e raccontò alla Rfi e alla Bbc quanto stava avvenendo. Il giorno seguente, uno squadrone della morte giunse appositamente per lei da Kigali: fu uccisa con due proiettili, di cui il primo le fu sparato in bocca. Ma la pressione dei media internazionali obbligò il Presidente Habyarimana a bloccare i massacri, salvando i 300 Tutsi che si erano rifugiati nelle scuole elementari dell’istituto della sua congregazione.

Va anche segnalato l’impegno dell’allora Nunzio Apostolico in Rwanda, il piemontese di Foglizzo Monsignor Giuseppe Bertello, che, come mi ha spiegato Pierantonio Costa, intervenne personalmente in Bugesera, “percorrendo la regione per più giorni, intervenendo quando possibile e raccontando ai colleghi diplomatici quanto aveva visto e la barbarie di quanto accadeva”. Le spoglie di Antonia Locatelli si trovano ancora oggi a Nyamata, vicino ad una chiesa all’interno della quale, due anni più tardi, furono massacrati migliaia di Tutsi.

Malgrado il sacrificio di Antonia Locatelli, infatti, il disegno genocida continuò il suo inarrestabile corso, fino alla notte del 6 aprile 1994, quando l’aeroplano del Presidente Habyarimana fu abbattuto nei cieli di Kigali, segnando così l’inizio dell’apocalisse. E nuovamente, in Ruanda la bandiera italiana rappresentò letteralmente per molte persone la differenza tra la vita e la morte.

Fin dalle prime ore del genocidio, il mestrino Pierantonio Costa, imprenditore residente in Ruanda fin dal 1965 e dal 1988 console onorario d’Italia in quel paese, decise di non rimanere passivo di fronte alle scene di orrore che si svolgevano sotto i suoi occhi. Per prima cosa con il figlio Olivier uscì ad appendere bandiere italiane (cucite con i tessuti trovati in casa e in magazzino dalla moglie, la svizzera Marianne) alla soglia delle case di persone e famiglie che Pierantonio sapeva essere in grave pericolo. Contribuì inoltre all’evacuazione degli italiani e degli occidentali messa in atto nei primissimi giorni di massacro. Dal Burundi dove era giunto con i rifugiati, trovò il coraggio di tornare nel Ruanda in fiamme e prese a organizzare, a sue spese, successivi convogli umanitari, con i quali ogni volta trasportava centinaia di persone verso la salvezza nel vicino Burundi. Piazzò bandiere italiane sui veicoli del convoglio, comprò visti d’uscita per i rifugiati e dovette negoziare con i miliziani a ogni posto di blocco per poter passare di nuovo in Burundi. Nel suo ultimo viaggio, trasportò 375 bambini. Alla fine del genocidio, aveva salvato centinaia di persone. La filosofia di Pierantonio, che tuttora vive tra Bruxelles e Kigali, è semplice: “Quando bisogna fare qualche cosa, semplicemente si fa”.

Ed è lo stesso Pierantonio ad avermi raccontato quel che fece un altro italiano a quei tempi: il missionario catanese Vito Misuraca, che avevo conosciuto di persona a Kigali nel 2004, senza però sapere molto di lui a quel tempo. Ebbene, Don Vito, che dal 1978 aveva diretto un orfanotrofio nel quale negli anni avevano ricevuto assistenza, educazione e formazione migliaia di ragazzi e ragazze ruandesi, durante il genocidio non li abbandonò, ma protesse gli orfani dall’assalto dei miliziani e ne organizzò poi l’evacuazione lungo un drammatico percorso nel quale un bambino ed un sorvegliante furono assassinati. Giunti a Nyanza, i bambini di Don Vito furono accolti da un altro italiano, il padovano padre Eros Borile, nel Centro per minori dell’ordine rogazionista, nel quale oltre 1200 profughi di entrambe le etnie trovarono rifugio durante il genocidio.

Don Vito Misuraca è morto a Bari il 22 febbraio 2010, in seguito a malattia. Padre Eros, dopo essere stato a sua volta malato, ha potuto riprendere l’attività missionaria.