L’avamposto della lotta a scafisti e trafficanti è un piccolo ufficio con quattro scrivanie al quinto piano della Procura della Repubblica di Siracusa. E’ la sede del Gicic, il Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina, creato nel 2006 e coordinato dal sostituto procuratore Antonio Nicastro.
La squadretta guidata dal sostituto commissario di polizia Carlo Parini è composta da uomini della Guardia costiera, dell’Agenzia delle Dogane e da un paio di interpreti-mediatori culturali inquadrati come ausiliari di polizia giudiziaria. Le pareti sono zeppe di faldoni. In cima agli scaffali, decine di scatole per fogli da stampante custodiscono i miseri reperti di sbarchi e naufragi. La scrivania di Parini sembra una trincea della Grande guerra, con una montagna di fascicoli al posto dei sacchi sabbia. Di fianco è appesa la fotocopia dell’articolo 7 del decreto sull’immigrazione clandestina: “Nell’assolvimento del compito assegnato l’azione di contrasto è sempre improntata alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona”.
Nella perenne emergenza non ci sono turni che tengano. Nel picco di quest’estate, dovuto soprattutto alla crisi siriana, “in una solo giornata c’erano fino a venti gommoni in mare”, racconta Tonio Panzanaro, secondo capo scelto della Guardia costiera in forza al Gicic.
“Grazie alle rotte individuiamo le reti criminali”
Gli uomini di Parini sono i primi ad accorrere a ogni sbarco in quel tratto di costa, anche se l’avamposto della lotta ai trafficanti non è dotato neppure di un’auto di servizio. Poco conta che sia notte, mattina presto e o che si tratti di salire all’improvviso su una motovedetta per raggiungere i barconi intercettati in mare aperto. Gli agenti approcciano i migranti, cercano di individuare subito gli scafisti e, quando possibile, di tirare le fila fino ai vertici del traffico. La prima domanda è se qualcuno abbia subito violenze o sia stato ucciso durante la traversata, in modo da poter contestare i relativi reati.
Come si riconosce al volo uno scafista nel caos dei soccorsi? Lo spiega Abdelaziz Mouddih, per tutti Aziz, marocchino in Italia ormai da una quarantina d’anni, uno degli ausiliari della squadretta, di mestiere kebabbaro a Ortigia, il suggestivo centro storico di Siracusa.
Parla Aziz, il kebabbaro “acchiappa-scafisti”
“Lo scafista di solito ha i vestiti asciutti e il pacchetto di sigarette pieno”, dice con l’aria di chi ne ha viste tante. Comunque di solito sono i “passeggeri” a prendersi la rivincita contro i loro aguzzini, specie dopo le traversate più infernali. “Vedo quello che mi dicono con la bocca”, affabula Aziz.
Aziz il kebabbaro è un Google umano degli scafisti. Appena sale su un barcone scruta la scena alla ricerca di facce note, magari gente “che abbiamo già arrestato”, dice senza celare un’evidente vocazione sbirresca. Perché uno scafista preso la prima volta se la può cavare patteggiando tre o quattro mesi di carcere e poi tornare al suo mestiere, ma con la recidiva le cose si mettono peggio. E la pena può toccare i sette anni.