Porto commerciale di Augusta (Siracusa), mattina del 22 ottobre 2015. Attracca la nave Dattilo della Guardia costiera, con una gigantesca scritta rossa sulla fiancata, “Rescue zone”, zona di soccorso. A bordo, una novantina di profughi eritrei e somali soccorsi in mare. Molti giovani, molte ragazze con vestiti colorati. L’arrivo dei migranti è l’unica attività che movimenta lo scalo nell’arco di tutta la giornata, salvo un singolo camion che preleva un singolo container dalla banchina spazzata dal vento. Il molo, però è affollato. Spiccano le pettorine di una pletora di organizzazioni umanitarie: Unhcr, Croce rossa, Save The Children, Emergency… Ci sono anche gli osservatori di una ong belga, in missione per verificare il trattamento riservato ai migranti. Non manca la Protezione civile e il tutto è sorvegliato, oltre che dalla locale questura, da un contingente del Battaglione mobile dei carabinieri, arrivato da Milano perché tutti i “celerini” locali risultano impegnati altrove, per lo più sul fronte migranti.

Lo sbarco ad Augusta del del 22 ottobre 2015

Eppure è uno “sbarco” come tanti, routine neppure registrata dalle cronache. Nessun naufragio, per fortuna, né violenze durante la traversata. Non c’è dramma, non c’è pathos. La prima cosa che chi scende a terra deve declinare non sono le generalità ma il numero di scarpe, perché ciascuno riceve un paio di zoccoli in gomma tipo crocs. I migranti vengono messi in fila per tre sulla banchina e fatti accovacciare per qualche minuto. Nessuno grida, nessuno parla. L’espressione dei loro volti non è poi tanto diversa da quella di qualunque viaggiatore alle prese con noiose formalità doganali. Poi il gruppo scompare oltre le transenne di un piccolo campo tendato allestito al porto per identificazione, controlli medici e smistamento nei centri di accoglienza. In tutta la procedura, il contatto con la popolazione locale è pari a zero.

Gli sbarchi veri, ormai, in Italia sono rari. I trafficanti sanno che i barconi saranno intercettati ben prima delle missioni di pattugliamento. E che qualcuno si incaricherà di coprire l’ultima tratta del viaggio. Tant’è, spiega il commissario Parini, che ormai le mafie delle traversate non hanno neppure più bisogno di una rete di complici in Italia– emersa invece in diverse indagini passate – per gestire l’arrivo dei migranti e il loro smistamento nel nostro Paese o in Nord Europa. A questo pensano le autorità italiane.

Mezzo corridoio umanitario di fatto c’è già. Forse andrebbe presa in considerazione l’idea di aprire l’altra metà, venendo incontro alla richiesta di molte organizzazioni umanitarie. Invece di lasciarla agli inafferrabili boss delle stragi.

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