La grande illusione tramonta inesorabilmente sulla val D’Agri. A colpi d’inchiesta, un indagato dopo l’altro. Il petrolio “pulito” non esiste, meno che mai nella Lucania felix, dove dicono ce ne sia tanto da non riuscire a pomparlo su. La sostanza neppure è cambiata: l’oro nero resta attaccato a chi lo maneggia, coi pozzi che arricchiscono gli altri e avvelenano chi gli sta intorno. Questo dice la nuova puntata dell’indagine della Procura della Repubblica di Potenza sul Centro oli Val D’Agri che due giorni fa ha portato all’emissione di altri 37 avvisi di garanzia in tutta Italia: nove dipendenti dell’Eni, una decina di imprenditori, quattro ex dirigenti dell’Arpab, funzionari regionali e della Provincia di Potenza, varie società del settore ambientale e due rappresentanti del Tecnoparco. Presto l’elenco potrebbe allungarsi andando a toccare esponenti di spicco della politica locale.
L’indagine era venuta alla luce a febbraio dell’anno scorso, con un primo “blitz” dell’Antimafia che indagava per traffico illecito di rifiuti, e si è via via allargata alle emissioni in eccesso dell’impianto Eni di Viggiano. Niente meno e proprio qui, in un angolo della Basilicata tra appenino lucano e campano dove lo sguardo si perde nel verde della piana agricola fino a sbattere contro la ‘Lucania saudita‘, l’agglomerato di tubature, invasi e camini che hanno trasformato un comune di 3.500 abitanti nella capitale nazionale del petrolio, il paesino più ricco d’Europa nella regione più povera d’Italia. Viggiano ospita 20 dei 27 pozzi della val D’Agri, dove il greggio viene estratto, stoccato e spedito alla raffineria Eni di Taranto, lungo un oleodotto di 136 chilometri, per finire in Turchia. Sempre lì c’è il Centro oli dell’Eni, dove il gas viene separato dalla parte liquida, compresso e immesso nella rete Snam. “Viggiano: la città di Maria, del Petrolio e della Musica”, recita il sito dell’amministrazione. Non necessariamente in quest’ordine, dicono i valligiani.
Il coperchio sollevato dalla Procura fa intravedere il fondo scuro e denso del barile, dove affoga un’altra storia italiana che ha i nomi cambiati ma trame analoghe a quelle dell’Ilva, del petrolchimico di Porto Marghera e delle centrali di Porto Tolle e di Vado Ligure. Le denunce ignorate. Gli avvisi di garanzia a imprenditori sempre “benedetti” e portati in palmo di mano dai politici, le istituzioni e i tecnici che abdicano al ruolo di tutori e controllori diventando, con le loro “distrazioni”, i primi garanti dell’impunità di chi facendo soldi inquina. E inquinando ne fa di più. Lavoratori e residenti stretti nel feroce ricatto tra il posto, l’abbaglio di una ricchezza sussidiata e la salute. Perfino la Curia e l’università, che si regge anche sui fondi delle royalty petrolifere, celebrano i fasti dell’età dell’oro nero. Non manca proprio niente.
“Nella Valle dell’Agip hanno venduto un sogno che si è trasformato in incubo”, spiega Maurizio Bolognetti, collaboratore di Radio Radicale e autore dei libri Le mani nel Petrolio e La peste italiana. Il Caso Basilicata. “All’ombra delle trivelle e dei pozzi – spiega – l’imprenditoria lucana ha costruito intere carriere e fortune. Tutti hanno assecondato la follia di consentire attività di estrazione idrocarburi a ridosso di dighe, centri abitati, sorgenti, aree a rischio frana e a rischio sismico, in zone protette a ridosso di parchi. Folle autorizzare l’ubicazione di uno stabilimento a rischio incidente rilevante, qual è il Centro Olio Eni, a ridosso di un invaso di importanza strategica come il Pertusillo”. Ma chi denunciava i rischi e le ombre, in questi 25 anni di storia italiana, veniva preso per matto. “Le multinazionali dell’oro nero – spiega Bolognetti – in questi anni hanno sponsorizzato di tutto: feste patronali, sagre, tornei di calcetto, film, rappresentazioni teatrali. Pane, circo e inquinamento. Oltre ad aver inquinato tutte le matrici ambientali, hanno inquinato le coscienze”.
L’inchiesta condotta dai pm Francesco Basentini e Laura Triassi parte dai reflui di produzione. Sotto accusa è il trattamento delle acque che non si riescono a smaltire per reiniezione nel pozzo Costa Molina 2, in località Montemurro e vengono inviate all’impianto di depurazione di Pisticci per poi finire nel Busento e nel Mar Ionio. Il sospetto degli investigatori del Noe è che per anni questa componente sia sta trattata in maniera scorretta, alterando i codici Cer dei rifiuti per far passare le autobotti indenni dai controlli, trascurando così la presenza di elementi tossici non trattati che esponevano al rischio di contaminazione l’ambiente e i lavoratori del Tecnoparco Valbasento, la società mista pubbico-privata incaricata della depurazione delle acque.
Problema: quando dici Tecnoparco intendi Michele Somma, presidente della petrolizzata Confindustria lucana per la quale il greggio è da sempre un affare importante. E’ anche un affare di famiglia. Il padre Faustino Somma, noto imprenditore potentino deceduto l’anno scorso, aveva gettato le basi dell’impresa tra le sue tante attività che spaziavano dalla siderurgia alla finanza, dal calcio e alla politica. Il figlio Michele è amministratore delegato e socio del Tecnoparco. Insieme ad altre 10 persone risulta indagato da febbraio dell’anno scorso per traffico illeciti di rifiuti petroliferi nell’asse Centro Oli (Viggiano)- Tecnoparco (Pisticci Scalo). ll sospetto degli inquirenti dell’Antimafia è che dal 2010 ad oggi quegli scarti di produzione petrolifera dell’Eni siano stati smaltiti in modo non corretto e poi sversati nel fiume Basento, dopo essere passati per l’impianto di smaltimento del Tecnoparco. Ma questo non ha impedito a Michele Somma di partecipare, nelle vesti di presidente di Confindustria, alla lunga trattativa tra Stato e Regione sulla destinazione delle risorse dei petrolieri per la Basilicata. La notizia dell’indagine a suo carico era nota da quattro mesi, come nulla fosse la politica lo accoglieva a quel tavolo. Tappeti rossi per lui.
Ma anche per i Criscuolo, un altro cognome che tiene assieme i due filoni principali della maxi-indagine. Sono una fiorente dinastia di imprenditori campani che hanno trovato il loro personale Texas in Basilicata. Pasquale Criscuolo, 57 anni e vari incarichi in Confindustria, detiene una galassia di imprese operanti nel settore (F.lli Criscuolo, Criscuolo Eco- Petrol service, ConsorzioMiva, Tesal, Outsourcing, Tecnologia & Ambiente, Cori). La stampa locale si è sbizzarrita a passare in rassegna le curiose partecipazioni in alcune delle società del gruppo, dove comparivano la moglie del direttore generale del dipartimento ambiente della Regione, quella del presidente nazionale di Assomineraria beni e servizi, e i figli del sindaco di Corleto e di un consigliere regionale del Pd. Ebbene i Criscuolo – la sorella di Pasquale, Carmela, e l’anziano Giuseppe – sono tra i 37 indagati dai pm di Potenza.
L’inchiesta bussa anche alla casa del controllore. Dove piovono nuove tegole. Molti funzionari regionali e Arpab indagati per questa vicenda sono anche rinviati a giudizio per disastro ambientale nella vicenda Fenice, inceneritore di San Nicola di Melfi, nato vent’anni fa e oltre a servizio della Fiat di Melfi. L’indagine sulla val D’Agri ipotizza anche emissioni in eccesso dell’impianto della compagnia di San Donato, in via di potenziamento anche grazie a due autorizzazioni arrivate nel giro di tre mesi. Vengono indagati tutti i vertici dell’Arpab, i vecchi (Raffaele Vita e Aldo Schiassi) e i nuovi (i funzionari Bruno Bove e Rocco Masotti). Sotto la lente i tanti pareri tecnici forniti negli anni per contenere le ansie e gli allarmi di residenti e ambientalisti sulla nocività delle emissioni dell’impianto che ora sono oggetto dell’attenzione dei magistrati. “I livelli degli inquinanti, soprattutto idrogeno solfato, sono inferiori ai limiti previsti dalle norme”, ripeteva ancora pochi mesi fa il direttore Bove. “Abbiamo a cuore i temi dell’ambiente che preserviamo con continui controlli e ammodernamenti”, gli faceva eco Roberta Angelini, responsabilie sicurezza e ambiente del Distretto Meridionale Eni (Dime). Entrambi sono indagati, proprio per quei pareri. Non a caso la mattina stessa del blitz al Centro Oli sono stati effettuati campionamenti da sottoporre ai tecnici della Procura. In altre parole: sono stati fatti ora quei controlli che la Regione Basilicata e l’Arpab avrebbero dovuto eseguire già da molto tempo per tutelare i cittadini lucani.
Il copione termina con l’ormai ex direttore dell’Arpab che in corner denuncia la Regione, cioé chi lo ha nominato, per non aver finanziato la strumentazione idonea a fare monitoraggi e campionamenti puntuali nelle aree a rischio. Gravissimo, certo, ma perché tacere per un anno e mezzo? Durante il quale, per altro, la “distrazione” del controllore ha raggiunto punte di eccellenza assoluta. Ad esempio quando Schiassi chiama ad occuparsi di rifiuti un altro indagato per “traffico e smaltimento illecito di rifiuti”. Non è uno scherzo. Il 30 aprile scorso ha nominato Gaetano Santarsia dirigente ad interim dell’ufficio Suolo e rifiuti del dipartimento di Matera nonostante fosse indagato da un mese dalla Dda di Potenza. I nomi di entrambi allungano oggi il registro stilato dagli inquirenti lucani che conta ormai una cinquantina di indagati. E più l’elenco si allunga e più l’illusione tramonta. E la notte color petrolio si mangia la val D’Agri. Ieri, poi, mentre in Comune si stava tenendo un incontro per parlare delle fiammate registrate al Centro Oli (proposto un laboratorio mobile per tenere sott’occhio l’attività), nell’impianto si è sviluppato un principio di incendio: lavoratori evacuati e fiamme spente nel giro di 15 minuti. Nessun ferito, nulla di grave. Ma nuova tensione, altra tensione.
*Immagini di Maurizio Bolognetti
Foto in home page dalla pagina Facebook del movimento No Triv Potenza
aggiornato da Redazione Web alle 10.00 del 5 dicembre 2015