“Quella mattina il preside non c’era. Ricevetti una telefonata inverosimile. Mi chiamò un bidello dalla sede staccata di via del Fanciullo. Parlava di un incendio, di fumo ovunque. Poi mi parlò di un aereo. E quell’incendio era l’aereo”. È passato un quarto di secolo da quella mattina del 6 dicembre 1990. Gianni Devani era vicepreside dell’Istituto tecnico commerciale “Salvemini” di Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna: lì un velivolo militare italiano in avaria, abbandonato dal pilota, andò a schiantarsi sulla classe II A, uccidendo 12 studenti di 15 anni e ferendone 88. Deborah Alutto, Laura Armaroli, Sara Baroncini, Laura Corazza, Tiziana di Leo, Antonella Ferrari, Alessandra Gennari, Dario Lucchini, Elisabetta Patrizi, Elena Righetti, Carmen Schirinzi, Alessandra Venturi furono travolti da quel jet impazzito che si infilò nella finestra dell’aula mentre era in corso l’ora di tedesco. Solo quattro ragazzi e l’insegnante si salvarono, per puro caso. “Mi precipitai in via del Fanciullo, che era a pochi minuti dalla sede centrale del Salvemini. Ma purtroppo l’inverosimile era realtà”.
Quelle immagini del piccolo edificio scolastico squarciato, dei ragazzi sopravvissuti e coi visi anneriti portati via in braccio dai vigili del fuoco fecero il giro del mondo. “Quando arrivai trovai anche molti ragazzi che buttandosi dalle finestre per salvarsi dalle fiamme e dal fumo si erano fatti male”, ricorda Devani. Fecero il giro del mondo anche le riprese video fatte da Francesco Giovannini, un cameraman della tv locale Rete7. Poco prima dello schianto, mentre faceva delle riprese per lavoro a Bologna, vide qualcosa in cielo e decise di filmarlo con il suo obiettivo. Immortalò anche l’immagine del pilota che si lanciava fuori dal velivolo con il paracadute. Il cameraman non poteva saperlo, ma pochi istanti dopo quell’aereo sarebbe piombato sulla scuola di periferia a pochi metri dall’Autostrada del sole.
A pilotare quell’Aermacchi Mb 326 arancione c’era Bruno Viviani, 24 anni, allora sottotenente dell’aeronautica militare con 800 ore di volo all’attivo. Era partito dall’aeroporto di Villafranca vicino a Verona per un volo di esercitazione: dopo essersi accorto dell’avaria aveva a lungo comunicato con le torri di controllo di Padova e Bologna per poi decidere di eiettarsi, una volta perso completamente il controllo del jet. Secondo l’accusa, con cui il sostituto procuratore di Bologna Massimiliano Serpi lo portò a processo, il pilota non avrebbe dovuto scegliere Bologna per l’atterraggio di emergenza, visto che questo avrebbe comportato il sorvolo dell’abitato. Inoltre, era la tesi del pm, i superiori di Viviani, Eugenio Brega e Roberto Corsini, non gli diedero l’aiuto necessario nella gestione dell’emergenza. Nel 1995 il pilota e i due superiori verranno condannati in primo grado a due anni e sei mesi di reclusione. Ma la Corte d’appello di Bologna e infine la Cassazione nel 1998 ribalteranno la sentenza e assolveranno i tre imputati da ogni accusa perché “il fatto non costituisce reato”.
Secondo i giudici della Suprema corte quello del Salvemini fu un “caso unico” e dunque non c’erano “regole di esperienza” in base alle quali valutare le colpe. I giudici nelle motivazioni definirono il comportamento di Viviani “egregio”. Per i giudici con la sua condotta “non modificò in nulla” il rischio di colpire centri abitati, vista la notevole densità abitativa della zona. “Non ho colpe”, si difese Viviani in un’intervista di qualche anno dopo. “Ero lassù, l’aereo è entrato in avaria, ho cercato di portarlo lontano, ma poi il mezzo si è girato, non sono più riuscito a controllarlo e mi sono dovuto buttare col paracadute”.
Non c’erano colpe né colpevoli dunque, e per i familiari delle vittime quelle assoluzioni sono state difficili da mandar giù. Ma ancora di più è stato difficile accettare che l’Avvocatura dello Stato al processo non assistette i sopravvissuti e i parenti delle vittime costituendosi parte civile. Decise invece di difendere gli imputati. Qualche risarcimento è arrivato: “Prima del processo noi decidemmo tutti insieme che i feriti accettassero i risarcimenti in modo da poter pagare le cure necessarie. Tanti ragazzi hanno subito sino a 15 interventi chirurgici”, ricorda Gianni Devani. “Le famiglie degli studenti morti e gli enti locali invece rifiutarono i risarcimenti per potersi presentare come parti civili nel processo”. Dopo la sentenza di Cassazione i famigliari decisero di andare a una transazione con il ministero della difesa per evitare un’altra lunga causa civile: “Alla fine – conclude l’allora vicepreside – i familiari hanno avuto appena il 10% di quanto hanno avuto i familiari delle vittime del Cermis”.