La Cop21 non è altro che l’ennesima e gigantesca foglia di fico che servirà per camuffare di belle intenzioni l’incapacità/negligenza di agire veramente sul “cuore del problema”, sia da parte dei policy-maker che, soprattutto, di ciascuno di noi.
Sono infatti indubbiamente divertenti e, per occhi poco inclini all’analisi, assai persuasivi tutti i grafichetti e la tabelline che stanno facendo fare carriera a scienziati e chief-economist, e in cui si mostra come, seppur lentamente, l’Occidente “civilizzato” stia progressivamente riducendo la sua dipendenza dal carbone e dal petrolio. Tuttavia, limitarsi a mostrare l’incidenza delle emissioni di CO2 sul totale dell’energia consumata (o sul Pil) è soltanto un abile gioco di prestigio per distrarre dalla vera causa del problema, introducendo lo specchietto per le allodole dell’efficienza energetica e depistando dal nocciolo della questione, che è l’ammontare complessivo di emissioni, direttamente correlato all’energia utilizzata per sostenere l’attività produttiva globale.
L’unica soluzione, per quanto come al solito indigesta e inammissibile dalle nostre zone di comfort, sarebbe intervenire sulla causa originaria del disastro, prendendo finalmente atto che questa economia fondata sulla crescita ad ogni costo, per quanto astutamente orientata all’efficienza, non può che trascinarci nell’abisso.
Sono infiniti gli studi che lo dimostrano (di cui la Cop21 altro non è che una prestigiosissima vetrina), così come sono ormai (tardivamente) numerosi i pubblici endorsement filo-ambientalisti da parte di economisti, scienziati e persino uomini politici. Compresi quelli che a Parigi s’innamorano della green-economy per poi, una volta rientrati a casa, firmare decreti che autorizzano e incentivano nuove trivellazioni per mare e per terra…
Di solito, a chi mi chiede quale sia una possibile soluzione, non tanto economica ma piuttosto “etica” al problema, rispondo con la spietata teoria di Lovelock che, considerando la Terra come un unico e gigantesco organismo vivente, vede nel surriscaldamento climatico soltanto una “febbre” del pianeta, una sua provvidenziale risposta immunitaria, cioè, per disfarsi dell’agente patogeno che la sta distruggendo. Non certo confortante, ma temo veritiero.
All’ipocrita concetto di efficienza energetica va dunque tempestivamente sostituito quello di “sufficienza”. Qui gli studi in materia sono ovviamente assai meno numerosi e certamente meno citati (sicuramente non alla COP21), se non altro perché inquadrano senza barare il problema nella sua unica e vera prospettiva salvifica. Cito, su tutti, il pionieristico contributo di Wolfgang Sachs “L’economia dell’abbastanza” (della cui segnalazione ringrazio l’amico Marco M.), che spiega con un’efficace metafora come insistere esclusivamente sull’efficienza rappresenti soltanto un grave depistaggio. Che però rassicura noi occidentali, in quanto ci garantisce surrettiziamente sulla possibilità di mantenere il nostro attuale stile di vita, semplicemente “finanziandolo” con un minor dispendio energetico. L’evidenza dimostra purtroppo però come una maggiore efficienza energetica non si traduce tanto in una diminuzione dei consumi complessivi di energia, quanto piuttosto – proprio per la sua maggior economicità e per una conseguente espansione dell’attività economica – in un aumento del fabbisogno energetico (effetto rebound). Dati alla mano, negli ultimi trent’anni gli americani hanno consumato in modo sempre più efficiente sempre più energia: anche un bambino capirebbe quindi che l’efficienza, da sola, non basta.
Considerando quindi il pochissimo tempo che ci resta, l’unica soluzione sarebbe allora incidere sulla variabile originaria di tutto il processo, che è l’attività economica. A sua volta sostenuta – udite udite – dai nostri standard di consumo. Dunque, se alla fin fine ci pensiamo: chi è che ha davvero nelle proprie mani il destino del pianeta? I luminari e professoroni riuniti alla Cop21, oppure ciascuno di noi, già da domattina?