Erano 136 su un gommone di nove metri quando hanno preso il Mediterraneo dalla Libia. Ognuno aveva pagato 350 euro al capo di origine gambiana. Il capitano del battello era un migrante al quale avevano insegnato in qualche giorno i segreti del mare.
Birame si era sbarazzato degli abiti leggeri e dei documenti. Indossava gli indumenti pesanti che gli sarebbero serviti per il soggiorno in Italia. A mezzanotte la partenza e dopo un paio d’ore le guardie costiere libiche ne hanno forzato il ritorno a terra. Sono stati bastonati, derubati e imprigionati per un paio di settimane. Birame, poco più che adolescente, è stato deportato alla frontiera con l’Algeria. Termina così il suo soggiorno libico, un mese di lavoro, il mare, la prigione e, per finire, l’espulsione.
Birame è partito dal Senegal sei mesi fa. Senza padre, una madre che lo supplica di tornare, e un paio di fratelli che accudiscono animali per un padrone. Finita la scuola elementare, non può permettersi di continuare gli studi. E’ per salvare la famiglia dalla miseria che decide la partenza per il mondo altro. Nel vicino Mali, riocccupato dai gruppi ribelli, è preso in ostaggio, imprigionato, minacciato e derubato. Sono giovani della stessa età, con l’arma e la violenza sui deboli come stile di vita. Ci sono case di passaggio gestite dai migranti lungo la strada che conduce all’Algeria. Si paga e si lavora per proseguire il viaggio. I soldi di Birame sono ormai finiti. Lavora in un ristorante come addetto alle pulizie.
Sua madre, Mariam e i fratelli, non sapevano che era partito. Li chiama dall’Algeria e già gli chiedono di ritornare a casa. Meglio poveri che morti, gli dicono al telefono dal Senegal. Birame lavora e si paga il viaggio per Tripoli da dove spera raggiungere l’Italia. Dice che gli piace Milano e che vorrebbe sbarcare in quella città. Lavora un mese per pagare la somma richiesta. Rimane nascosto per un paio di giorni in una casa poco lontano dal mare. Con lui ci sono nigeriani, sierra leonesi, camerunesi, gambiani e altri nazionalità che non ricorda. Bastava passare le acque nazionali e chiamare il soccorso col telefono la Croce Rossa.
Questione di minuti. Le guardie libiche li hanno intercettati e poi derubati. Ha dovuto chiamare casa per farsi mandare 500 euro per ritrovare la libertà del deserto. Accompagnato alla frontiera si ritrova in Algeria a fare il manovale per vivere. Aiutato da un’associazione inizia il viaggio di ritorno al suo paese. Al confine col Niger, senza soldi, la polizia sequestra il piccolo computer che si era portato dietro come unico ricordo. Alla frontiera successiva vende il cellulare per pagarsi il viaggio fino ad Agadez, nel cuore migrante del Niger. I suoi vestiti sono stati scambiati in Libia, al momento dell’imbarco per abiti da inverno. Nello zainetto, pesante, porta una pentola con il cibo per il viaggio di ritorno in Senegal.
Birame ha informato sua madre del possibile ritorno a casa. Non ha conosciuto suo padre e neppure sua madre sa dove si trova. Gli altri fratelli forse hanno lo stesso padre ma non è certo della loro identità. Sa solo che vivono la miseria e che lui voleva cambiarne la sorte segnata dal principio. Sei mesi sono passati dalla partenza dal Senegal. Birame si trovava sul gommone da 9 metri con altri 135 migranti come lui per traversare il mondo.
Ancora pochi minuti di navigazione e sarebbe scattata l’operazione di soccorso. Le acque internazionali dei naufraghi per salvarsi dalla storia. Invece sono tornati alla riva di partenza. Birame aveva venduto tutto e indossato gli abiti pesanti perché gli avevano detto che dall’altra parte c’era l’inverno. Ora gli rimane una maglietta e lo zaino col cibo sufficiente per tornare al paese. Dice che una volta in Senegal cercherà di avere i documenti in regola per viaggiare in Italia.