Furono veri e propri anni di galera, come li definì Giuseppe Verdi, quelli nel corso dei quali presero vita le opere che portarono il compositore di Busseto ad affermarsi nello scenario operistico dell’epoca. Anni nei quali nacque anche la Giovanna d’Arco, sua settima opera andata in scena, nella sua prima assoluta, al Teatro alla Scala di Milano il 15 febbraio 1845 e che tornerà sullo stesso palco domani, 7 dicembre, 150 anni dopo l’ultima volta. Ma cosa voleva dire Verdi con l’espressione anni di galera? Quelli dal 1843 al 1850 furono anni nei quali l’operista – già grande ma ancora giovane – si impegnò, senza alcuna soluzione di continuità, in una lunga serie di nuove opere: accettava nuove commissioni quando ancora non aveva ultimato i lavori dell’opera precedente, in un crescendo di spettacoli e prime assolute che, se da una parte lo affermarono agli occhi della critica e del pubblico come il massimo operista del tempo, dall’altra finirono per sfiancarlo completamente. Sette anni nei quali l’autore dei futuri Rigoletto e Traviata sfornò ben 12 nuove opere, a partire da I Lombardi alla prima crociata, andata in scena alla Scala l’11 febbraio 1843, e a finire con Stiffelio, la cui prima esecuzione ebbe luogo a Trieste il 16 novembre 1850.
Un periodo nel quale il genio verdiano ebbe a confrontarsi con ritmi di composizione tipici del teatro rossiniano, ritmi frenetici a causa dei quali il compositore giunse a soffrire di gravi problemi di salute. Problemi che gli faranno compagnia anche durante la composizione della Giovanna d’Arco, l’opera che scrisse più velocemente, tra il 9 dicembre 1844 e il 6 gennaio 1845: “Un periodo di grande spossatezza fisica – raccontano le cronache dell’epoca – Egli grida che pare un disperato – durante le prove dei Lombardi alla Scala -; batte tanto i piedi che pare che suoni l’organo con la pedaliera; suda tanto che gli cadono le gocce sullo spartito”.
Un continuum di incessanti viaggi in lungo e in largo per portare i suoi lavori sui palchi dei maggiori teatri del tempo. Fu così che prese vita, tra gli altri, l’introduzione alla Giovanna d’Arco, direttamente ispirata da una tempesta incontrata durante un viaggio in carrozza da Roma a Milano, lungo l’Appennino umbro-marchigiano. Un’opera anticipatrice, nella quale, come afferma lo stesso Riccardo Chailly, che la dirigerà alla Prima, si intravedono molti degli elementi che andranno a caratterizzare i futuri grandi successi. Primo fra tutti, senza alcun dubbio, il Don Carlo: “Il tenore è Carlo VII – narra Massimo Mila in Verdi – Come personaggio, una immatura anticipazione di quel che sarà un giorno, sempre sul fondo d’una creazione schilleriana, Don Carlo”.
E già, perché oltre a essere anticipatrice col carattere di alcuni dei suoi personaggi e di soluzioni musicali che Verdi svilupperà nei suoi futuri e più celebri lavori, la Giovanna d’Arco è inoltre la prima di una piccola ma significativa serie di opere verdiane il cui libretto affonda le radici nei drammi di Friedrich Schiller: I Masnadieri, Luisa Miller e Don Carlo. Un incontro casuale quello tra Verdi e il drammaturgo tedesco, semplicemente dovuto alla commissione, da parte del Teatro alla Scala, a Temistocle Solera di un libretto tratto dal dramma di Schiller La Vergine d’Orléans.
La Giovanna d’Arco piacque, molto, al pubblico dell’epoca, come testimonia il compositore e direttore d’orchestra Emanuele Muzio in una delle sue preziosissime lettere: “L’opera piace sempre di più, e sabbato e domenica si voleva il signor Maestro, si gridava ‘fuori, fuori il Maestro!’; ma egli non era in teatro”. Un’assenza, quella di Verdi, dovuta alla brusca rottura venutasi a creare tra lui e l’impresario del Teatro alla Scala, Bartolomeo Merelli, e in seguito alla quale il grande operista tornerà nel tempio della musica lirica con una nuova opera, Otello, solo 42 anni più tardi. Oggi la Giovanna d’Arco torna alla Scala, per un ritorno al passato sempre più necessario.