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Appunti dal mondo a km 0 – Parigi vista dal Medio Oriente

Attacchi Parigi, il mondo ricorda le vittime

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Guardavo un video degli attentati di Parigi, l’altro giorno. Il teatro. E a un certo punto, dopo degli spari, si sentiva una batteria di esplosioni. Una dopo l’altra. Però, mi sono detta. Avrebbero potuto abbattere l’intero isolato. Avevano pianificato in grande.
L’ultima esplosione ha scosso i vetri. Non era Parigi. Era Hebron, fuori dalla mia finestra.

Era un giorno qualsiasi a Hebron.
Mentre in Europa, nel mondo i quotidiani, le televisioni ancora parlano di Parigi, qui abbiamo già avuto attentati a Baghdad, bombardamenti in Siria, in Libia in Yemen, parenti annegati in Grecia – e tra israeliani e palestinesi, naturalmente, tra cui sono in questi giorni, accoltellamenti sparsi. Per i siriani, gli iracheni, i palestinesi che ho intorno, Parigi non è che una notizia tra mille altre. Argomento di discussione per non più di dieci minuti. Ed è inutile negarlo: la reazione che prevale è l’indifferenza. Non tra i musulmani istruiti, dall’inglese perfetto, il dottorato, quelli che noi giornalisti amiamo intervistare, quelli di cui siamo amici: ma tra i musulmani poveri, quelli che hanno quarant’anni che sembrano settanta, e case senza acqua, senza elettricità, solo foto di figli morti appese alle pareti, quelli tra cui abitano e si nascondono gli jihadisti – alzano le spalle, e ti dicono solo: “Ora finalmente capite quello che viviamo da sempre”.

Non che condivida, ovviamente – risolviamo la guerra in Siria, piuttosto che trasformare l’intero mondo in Siria. Però sono qui, in Medio Oriente, e sono qui da dieci anni, ormai: tra gente la cui vita, non solo la cui morte, non fa notizia. E quindi, anche se non condivido, capisco.
Certo che capisco. Perché visti da qui, all’improvviso tutti in Occidente diventano esperti di Medio Oriente. Di Islam. Non saprebbero citare il nome di un regista, di uno scrittore arabo, non saprebbero individuare il Qatar su una mappa, distinguere un sunnita da uno sciita, hanno al più comprato un tappeto in Turchia, nella loro vita, una lampada in Marocco, ma esplode un aereo, si spiaggia un bambino, e per giorni pontificano su guerre di cui non gli è mai importato niente.

Se nessuno, qui, segue questi dibattiti, è perché tanto la conclusione è sempre la stessa: Bombardiamo.
E non importa che quel bambino sia stato ucciso dalle frontiere chiuse, non dalla guerra. Che sia stato ucciso dall’Europa. Qualunque sia il problema, qualunque sia il paese, qualunque sia la sua complessità, la risposta è sempre la stessa: Bombardiamo.
Non importa che siamo noi a vendergli le armi. Bombardiamo.

E non importa che siano colpiti solo civili già allo stremo, che gli jihadisti, a Raqqa, stiano rifugiati sottoterra, al sicuro, non importa che sia colpita solo la Siria e non l’Iraq anche se l’Isis è più forte in Iraq che in Siria: qualcuno di voi, in questi giorni, si è chiesto perché? – tanto le vite arabe non contano. La Libia. Lo Yemen. Il Pakistan. Chiunque domani può andare e bombardare. L’ONU, il diritto internazionale non esistono più, è la legge del più forte, nient’altro. E senza alcuna strategia politica. Non sono più neppure guerre umanitarie. Sono bombe e basta. A caso. In Pakistan i droni continuano a falciare matrimoni perché si usa sparare in aria, per festeggiare, e un ragazzino, da una base militare americana, davanti a dei pulsanti colorati come fossero la playstation, pensa sia un convoglio di jihadisti. E quella invece è l’auto degli sposi. Perché tanto la vita, qui, non conta.

Quando dalla Siria mi sono spostata nell’est dell’Ucraina, a un certo punto, perché ai giornali non interessavo, era il momento peggiore dall’inizio della guerra, ad Aleppo, ma vincevo premi per reportage che non venivano pubblicati, dopo un ultimo collegamento radio con la Bbc dissi alla giornalista che era devastante, per me, andarmene. E proprio in un momento così. E la giornalista mi disse: “Sembra quasi tu sia triste di partire. Sembra quasi tu sia legata ai siriani”. Fossi stata tre anni a Parigi, a Londra a studiare, a fare la barista da Starbucks, fossi stata tre mesi in Erasmus, mi avrebbero tutti detto: Ti dispiace andare via, vero? Dalla Siria no.

O quando, anni fa, sono andata via da Ramallah. Come se uno, qui, non avesse legami. Come se le persone, qui, non fossero persone.
Sconfiggere il terrorismo non è questione di bombardamenti, ma di intelligence. E nei manuali militari, infatti, il nemico si sconfigge: il terrorismo, più esattamente, si sradica. Il problema vero è che gli jihadisti vivono in un ambiente che non li approva, è vero: ma neppure li condanna. Ed è evidente qui in Palestina in questi giorni: dove tutti ti dicono che gli accoltellamenti non hanno senso, ma in una società in cui tutti si conoscono, e quindi tutti potrebbero parlare, denunciare, tutti potrebbero fornire informazioni utili, celebrano gli accoltellatori come eroi. Uno, un 19enne che studiava giurisprudenza, e che ha ucciso due soldati, è stato premiato con una laurea honoris causa. Ma se hai vent’anni e sei arabo, arabo musulmano, la vita puoi spiarla solo su internet. Non hai la minima prospettiva: se non quella di sopravvivere a stento. Di avere a stento di che cenare, tra queste strade, queste case fatiscenti di topi e cemento, stretto tra regimi corrotti, stati di polizia, economie al collasso: e il mondo, intorno, che ti guarda come un essere di seconda classe. Che disconosce completamente la tua cultura. Se hai vent’anni e sei arabo, il sogno per cui sei pronto a morire è imbarcarti per l’Europa, e venire a vivere una nostra vita di periferia.

A Gaza sono otto anni che non hanno più neppure l’acqua. Sotto otto anni che sono sotto assedio. E hanno quest’acqua che è acqua salata, acqua di mare, rimani appiccicaticcio tutto il giorno: tutti i giorni: per anni. E un F-16 che ogni tanto arriva e bombarda, arriva e muori . Poi uno si chiede: Hamas.

E’ questo il terreno in cui si mimetizzano gli jihadisti. E’ questo il terreno su cui bisogna lavorare. E con uno strumento molto più costoso delle bombe: la giustizia sociale. La risposta, quando provo a dire tutto questo, è: “Ma mica è colpa nostra”. La primavera araba mica è fallita per causa nostra. Ed è sicuramente vero che gli errori, se siamo arrivati a questo disastro, sono stati di tanti. Di tutti. Però se gli attivisti egiziani sono tutti in carcere è perché primi ministri come Renzi definiscono al-Sisi uno statista. Perché aziende come l’Eni, in Egitto, hanno contratti di sfruttamento per il più ampio giacimento di gas del Mediterraneo.

Questa è l’Italia, oggi, vista da una baraccopoli del Cairo. Un’Italia che l’Egitto può mandare a rotoli: l’unica cosa che conta è che venda il gas.
E che Sharm el-Sheikh sia sicura. Era il mio primo giorno, in Iraq, e ho visto quest’uomo, la sera, che dormiva per strada. Pensavo fosse uno dei mille sfollati di questi mesi, e gli ho anche lasciato delle monete. E invece dormiva accanto a un distributore di benzina: per essere il primo della fila, il mattino dopo – perché c’è benzina solo per i primi dieci, i primi venti, in Iraq. Il paese galleggia sul petrolio: tutto intorno hai trivelle ovunque. E però poi gli iracheni non hanno la benzina.
Sta tutta nel vostro serbatoio.